Storia di una capinera
Catania. Maria, giovane figlia di un vedovo che si era risposato, all’età di sette
anni, poco dopo la morte della madre, è destinata al convento, non in seguito
al manifestarsi di una sua vocazione alla vita monacale, ma per
un’irrevocabile decisione familiare. Nella nuova famiglia, composta dalla
matrigna e dai due fratellastri Gigi e Giuditta, non c’è più posto per lei:
il convento è la sola via d’uscita possibile ai mali della società di quel
tempo. Ha quasi 20 anni Maria quando nel 1854 a Catania scoppia l’epidemia di
colera ed è costretta quindi a far ritorno a casa, trasferendosi con tutti i
familiari nella tenuta di campagna a Monte Ilice.
La storia prende avvio proprio
da questo momento, quando, come farà quotidianamente, scrive una lettera alla
compagna di noviziato, l’amica del cuore Marianna. In queste lettere Maria
parla di sé, della sua famiglia, della vita che conduce in campagna e
soprattutto dell’amore pudicamente vissuto per Nino, figlio dei loro vicini,
la famiglia Valentini. L’amore di Maria, vissuto come gioia e turbamento
dapprima, si trasforma poi in passione, gelosia, ossessione, in un percorso che
presto la conduce alla follia. Nino viene dato in sposo alla sorellastra Giuditta
proprio mentre Maria è costretta far ritorno in convento, per prendere i voti,
dalla matrigna, accortasi dei forti sentimenti fra i due giovani.
Straziata e
sfinita dal dolore per l’impossibilità d’amare, anche se ricambiata da Nino,
Maria muore nella cella sotterranea del convento destinata alle mentecatte,
proprio come quella capinera rinchiusa dal suo padroncino in una gabbia, privata
della sua libertà, dei suoi istinti naturali.
è il primo romanzo di Verga che conobbe un incontrastato successo di
pubblico, successo destinato a rimanere duraturo. Scritto nell’estate del 1869
mentre si trovava a Firenze, per interessamento di Francesco Dall’Ongaro venne
pubblicato dapprima, nel 1870, sulla rivista La ricamatrice, edita
dall’editore milanese Lampugnani, e poi, nel 1871, in volume sempre dallo
stesso editore: il romanzo era introdotto da una lettera-prefazione che Dall’Ongaro
indirizzava a Caterina Percoto. Due anni dopo venne ripreso da un editore
importante come il Treves che lo ripubblicò senza l’introduzione di Dell’Ongaro.
Appartiene
al periodo dei cosiddetti romanzi giovanili, cittadini e mondani, anche se si
differenzia da questo quadro per più di un motivo. Innanzitutto per l’ambientazione in campagna rispetto alla
città, inoltre l’amore impossibile
per Nino che porta Maria a poco a poco alla follia è esasperato e drammatizzato
in eccesso, elemento nuovo ed inquietante in confronto alla melodrammaticità di
altri suoi personaggi femminili. Il taglio epistolare del romanzo garantisce
linearità alla narrazione derivante da un punto di vista unico ed unitario,
quello del personaggio che scrive le lettere e a cui il narratore lascia libero
tutto il campo poiché si isola dietro l’artificio della storia sentita
raccontare da una terza persona e da lui riportata. La vicenda pare denunciare
l’intenzione di sfruttare la struttura sensibile di una sentita polemica
sociale sull'ingiustizia della condizione femminile dell’epoca, privata
della sua libertà di decidere del proprio destino, assoggettata a uno stato di
inferiorità.
Il
linguaggio di Maria è dominato da una certa enfasi sentimentale, è lezioso nel
patetico, ridondante nell’uso stucchevole dei diminuitivi. Maria non si
presenta ancora come personaggio narrativamente vero, però si configura agli
occhi dei lettori con una certa credibilità: al di là degli eccessi enfatici,
lo svolgersi del suo dramma umano finisce per risultare plausibile e
psicologicamente motivato.
La
“capinera”: un nuovo personaggio che va a inserirsi in quella galleria dei vinti ai quali Verga concede la possibilità di morire,
non quella di avere fede. La loro sofferenza non trova conforto nella religione,
come ci testimonia la tragica storia di Maria: chi può restare più vinto della
giovane novizia che paga con la vita il suo desiderio irrealizzato di amore?
(relazione)