UN PADRE CHE DA' LA VITA O LA TOGLIE?
Mio
padre è stato per me Da Autobiografia
Mio padre è stato per me “l’assassino”, fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. Allora ho visto ch’egli era un bambino, e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto. Aveva in volto il mio sguardo azzurrino, un sorriso, in miseria, dolce e astuto. Andò sempre pel mondo pellegrino; più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi. Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare - ammoniva - a tuo padre.” Ed io più tardi in me stesso lo intesi: Eran due razze in antica tenzone.
(analisi del testo) (rapporto padre-figlio)
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Prima fuga Da Preludio e Fughe
La vita, la mia vita, ha la tristezza del nero magazzino di carbone, che vedo ancora in questa strada. Io vedo, per oltre alle sue porte aperte, il cielo azzurro e il mare con le antenne. Nero come là dentro è il mio cuore; il cuore dell’uomo è un antro di castigo. È bello il cielo a mezzo la mattina, è bello il mar che lo riflette, e bello è anch’esso il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori viventi. Se nel mio guardo, se fuori di lui, non vedo che disperazione, tenebra, desiderio di morire, cui lo spavento dell’ignoto a fronte si pone, tutta la dolcezza a togliere che quello in sé recherebbe. Le foglie morte non fanno a me paura, e agli uomini io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi, del nero magazzino di carbone, vedono il cielo e il mare, al contrasto, più luminosi: pensa che saranno chiusi da domani. Ed altri s’apriranno, simili ai miei, simili ai tuoi. La vita, la tua vita a te cara, è un lungo errore, (breve, dorato, appena un’illusione!) e tu lo sconti duramente. Come in me in questi altri lo sconto: persone, mansi animali affaticati; intorno vadano in ozio o per faccende, io sono in essi, ed essi sono in me e nel giorno che ci rivela. Pascerti puoi tu di fole ancora? Io soffro, il mio dolore, lui solo, esiste. E non un poco il blu del cielo, e il mare oggi sì unito, e in mare le antiche vele e le ormeggiate navi, e il nero magazzino di carbone, che il quadro, come per caso, incomincia stupendamente, e quelle più soavi cose che in te, del dolore al contrasto, senti - accese delizie - e che non dici? Troppo temo di perderle; felici chiamo per questo i non nati. I non nati non sono, i morti non sono, vi è solo la vita viva eternamente; il male che passa e il bene che resta. Il mio bene passò, come il mio male, ma più in fretta passò; di lui nulla mi resta. Taci, empie cose non dire. Anche tu taci, voce che dalla mia sei nata, voce d’altri tempi serena; se puoi, taci; lasciami assomigliare la mia vita - tetra cosa opprimente - a quella nera volta, sotto alla quale un uomo siede, fin che gli termini il giorno, e non vede l’azzurro mare - oh, quanta in te provavi nel dir dolcezza - e il cielo che gli è sopra. |
RELAZIONE
È difficile definire in maniera chiara e assoluta il
rapporto esistente tra Umberto Saba e i genitori. Sicuramente possiamo dire che
quella dell’autore triestino fu un’infanzia molto difficile, che sotto certi
versi si potrebbe definire “lacerata”; infatti, strettamente legato alle
figure del padre e della madre dal desiderio di vivere in un ambiente ricco di
affetto e di amore, in cui potesse venir appagato il suo bisogno di unità e
stabilità, Umberto
si trovò invece a dover fare i conti da una parte con la
rigida intolleranza materna, che rappresenterà sempre un limite per il suo
animo ribelle e indipendente, dall’altro con la totale assenza di una figura
paterna, di cui Saba
dovrà fare a meno per tutta la gioventù e farà la
conoscenza solamente verso i vent’anni. Ma andiamo con ordine; abbiamo detto
che Umberto Saba
nacque a Trieste nel 1883 da Ugo Edoardo Poli, triestino di
origine veneziana e Rachele Coen, triestina di religione ebraica.
Le sue radici
erano, tra le altre cose, già un motivo di esclusione, in quanto lo ponevano ai
margini degli orizzonti culturali italiani e nello stesso tempo lo dotavano di
una buona apertura europea, avvicinandolo così a Svevo, di vent’anni più
vecchio. Il padre, convertitosi alla religione ebraica e mutato il suo nome in
Abramo in occasione del matrimonio, abbandonerà la famiglia ancor prima della
nascita del figlio, scatenando l’ira non solo della moglie, che gli avrebbe
serbato rancore per tutta la vita, ma anche lo sdegno di Umberto, che ne avrebbe
ripudiata la memoria mutando il suo cognome nel 1910 da Poli in Saba. Il piccolo Umberto
venne allora affidato alle cure di una balia slovena, di religione
cattolica, l’amatissima Peppa, nella cui casa il poeta riconobbe più tardi
una specie di “paradiso”, perduto al ritorno nella casa materna. Qui, in un
ambiente rigido e austero, Umberto
crebbe con la madre e due zie, una delle
quali, la zia Regina dalla “dolce anima di formica”, gli sarà prodiga di
attenzioni e aiuti.
È quindi chiaro, anche da queste prime battute, l’emergere
dell’incompatibilità e dei contrasti tra le figure dei due genitori (tanto
che il loro primo litigio scoppiò il giorno del matrimonio, per l’abito di
nozze), due figure radicalmente opposte, espressione di valori e ideali diversi,
due razze, come dichiara lo stesso Saba, coinvolte in
“un’antica tenzone”,
tenzone dovuta sì principalmente a motivi razziali (che Saba
indicherà più
volte come l’origine di tutte le sue sventure) ma anche in buona parte a
motivi caratteriali: il padre infatti, nato da una nobildonna, Teresa Arrivabene,
era certamente un giovane irrequieto, errabondo, superficiale, mentre la madre
era una donna solidamente ancorata a un ambiente di piccoli commercianti, per i
quali gli affari e la religione prescrivevano un costume rigoroso e
coerentemente conservatore. I suoi risentimenti anticattolici comunque furono
provocati fondamentalmente dall’abbandono del marito, non dalla sua religione,
e furono ravvivati allorché il bambino, messo a balia presso un’umile
contadina slovena, sembrava dovesse sfuggire al suo affetto, proprio come il
padre. Così lo ricondusse nella propria casa per provvedere personalmente alla
sua educazione, ma questo evento segnerà una ferita profonda nell’animo di Umberto
che, soffocato dall’intransigenza e dai metodi repressivi della madre
ricorderà sempre con grande rimpianto la separazione dalla balia.
La mancanza del padre e il carattere aspro della madre
lasciarono insomma un’impronta molto dolorosa in Saba, che avrebbe sofferto
per tutta la vita di gravi e ripetute crisi depressive, ma soprattutto
concorsero a formare il retroterra psicologico della sua opera, in cui si
intrecciano un irrisoluto complesso
edipico, il costante desiderio di
appartenere a una comunità e la crudele percezione di esservi irrimediabilmente
escluso, l’idea che il rapporto tra uomo e donna sia segnato da fatali
fraintendimenti, il mito del tempo felice trascorso presso la balia e il ricordo
dello straziante distacco da lei.
(torna all'inizio)
ANALISI DEL
TESTO Mio padre è stato per me “l’assassino”
Buona parte dei temi sinora trattati emergono chiaramente nelle due poesie
riportate. "Mio padre è stato per me l’assassino" è uno dei 15 sonetti
che compone la raccolta Autobiografia, con cui Saba
racconta la propria
vita sino al momento in cui intraprese la professione di libraio antiquario. La
scelta del sonetto non è casuale, ma serve al poeta per “chiudere e isolare i
diversi momenti della sua vita, cavando di ciascuno l’essenziale”, proprio
come in questo caso, in cui l’autore ripercorre brevemente le tappe della sua
problematica relazione con la figura paterna. Egli infatti “racconta” al
lettore (ma il tono è quello della confessione lirica) i suoi ricordi del
padre, del suo difficile rapporto con la moglie, dell’odio di questa (tanto
che si riferisce a lui con l’appellativo di assassino). Poi ce ne rivela il
carattere e sottolinea le straordinarie affinità, non solamente fisiche, che lo
legavano al padre. Quindi sottolinea la diversità di carattere fra i due
genitori e l’impossibilità della loro convivenza, lo scontro di "due
razze"
che egli stesso avrebbe sentito, in seguito, in lotta dentro di sé.
Il significato complessivo del sonetto, che è tra l’altro uno dei rari
componimenti in cui Saba
parla del padre, è quindi sintetizzato nel verso
finale (Eran due razze in antica tenzone); Saba
infatti ricorda il radicale
contrasto di cultura e temperamento che divise i suoi genitori ancor prima della
sua nascita. Saba
affermava di soffrire, in termini psicoanalitici, di un
complesso edipico rovesciato: per lui infatti la madre ricopriva il ruolo dell’autorità
inflessibile e della punizione (solitamente ricoperto, secondo le teorie di Freud, dalla figura paterna), e il padre il ruolo della trasgressione, della
fuga, del principio del piacere. Il rapporto era poi ulteriormente complicato,
come già detto, dalla diversa appartenenza religiosa dei genitori. Mentre la
madre “tutti sentiva della vita i pesi” (l’inversione sintattica ha una
netta funzionalità semantica, sembra suggerire e potenziare la fatica del
vivere che sempre in Saba
connota la figura materna), il padre viene definito
“un bambino”, “dolce e astuto”, “gaio e leggero”: la curiosità, la
capacità di stupirsi, la tendenza alla trasgressione, tutto quanto si avvicina
al dono della poesia proviene a Saba dal padre. Da qui perciò la grave
inquietudine dell’autore, che, se da una parte si sentiva profondamente legato
al padre per tutta una serie di affinità e di fattori comuni, dall’altra si
sentiva tradito, abbandonato, privo della possibilità di conoscere ed amare un
padre di cui egli aveva realmente un grande bisogno.
(torna al testo)
ANALISI DEL
TESTO Prima fuga
La poesia Prima fuga è invece un chiaro esempio del
nuovo metodo compositivo messo a punto da Saba in Preludio e Fughe. L’io
narrante è venuto meno, si è disincarnato, liberato di ogni esperienza
individuale, per ridursi a pura voce, o meglio a scambio di voci, che
introducono due opposte prospettive sul mondo: disperazione, da una parte, e
gioia di vivere, dall’altra. Anche se non vi sono espliciti riferimenti, è
chiaro che le due voci in questione possano essere ricondotte l’una a quella materna e l’altra
a quella paterna: da una parte infatti vi è la voce del
padre che è la voce della letizia, della calda vita, delle illusioni, dello
slancio ai valori vitali e dall’altra invece vi è la voce della madre, che è
la voce della stanchezza, del dolore, del disincanto, della negazione di ogni
valore.
In un crescendo che a partire dalle strofe iniziali, in cui le voci sono
concentrate in unità singole e caratterizzate da un chiaro individualismo,
si sviluppa poi in un qualcosa di più organico e raccordato, in cui le due voci
si fondono nel dialogo, procedendo per botta e risposta, i contrasti si
acuiscono fino a culminare quando la prima voce, quella che potremmo definire
“materna”, arriva addirittura a negare la vita, affermando che felici sono
coloro che non sono nati. Può sembrare un qualcosa di eccessivo, ma quest’atteggiamento
severo, austero, negativo della madre ci viene confermato esplicitamente dalle
parole di una lettera che Saba scrisse a Nora Baldi del 1955:
"Quando i miei
parenti si accingevano a coprirmi mia madre si oppose, dicendo che se vivevo
vivevo, e se morivo morivo…". Una madre praticamente aliena a sentimenti d’affetto,
che non si cura del destino del proprio figlio, che lo lascia in balia di se
stesso e che quando interviene lo fa solo per proibirgli o negargli qualcosa;
questa è la figura materna che sembra emergere dalle opere di Saba, e che,
soprattutto se confrontata con la dolcezza e affettuosità della balia Peppa,
porterà l’autore a sviluppare un carattere chiuso ed introverso e sarà la
causa, lo ripetiamo, delle ripetute crisi di depressione che lo tormenteranno
per tutta la vita.
La composizione comunque non si risolve semplicemente nel
contrasto tra le due voci, perché esse, come afferma lo stesso autore, "sono
in realtà la voce dello stesso Saba; l’espressione - diventata poesia - del
sì e del no che egli disse alla vita, alla “calda vita” amata e odiata al
tempo stesso e dalla stessa persona". È chiaro quindi che con le Fughe
abbiamo, a livello di resa stilistica, un monologo sotto forma di dialogo, che
si innalza, all’interno della produzione poetica sabiana, in quanto funzionale
al parziale superamento dell’interno dissidio, alla chiarificazione del dramma
psicologico e al risanamento, almeno temporaneo, del cuore “dal nascere in sue
scisso”. (torna al testo)
Relatore: Antonio Roberti.