L'UOMO, LO SPECCHIO, LA CRISI DELLA COSCIENZA

Uno, nessuno e centomila è sicuramente il più ardito e innovativo romanzo di Pirandello: sia per quanto riguarda la psicologia del personaggio, sia sul piano tecnico-strutturale, dal momento che la narrazione è improntata non sul principio della logica consequenzialità dei fatti, ma sull’alternarsi di considerazioni e riflessioni personali, brevi aneddoti, ingegnosi sillogismi, dove il narratore si rivolge direttamente al pubblico-lettore, dialoga con lui, lo provoca e cerca di conquistarlo con la propria “logica”.
All’interno di questo complesso intreccio, di questa impaginazione frammentaria, si pone anche il rapporto difficile che il protagonista ha stabilito con il padre che, pur essendo ormai morto, risulta ancora presente nella sua vita e molti suoi atteggiamenti ne sono spesso condizionati.
Vitangelo Mostarda è per molti aspetti la tipica figura dell’”inetto”: figlio di padre borghese efficiente e abile, egli è un debole, un incapace, ossessionato dall’analisi di sé e degli altri, un “contemplatore” e non un lottatore. Non recita una parte attiva all’interno della società, ma si adegua ai ruoli e alle maschere che gli assegnano gli altri: per la moglie è lo sciocco e dolce Gengè; per i suoi soci negli affari è uno svagato, che firma documenti senza sapere neanche di cosa trattino; per i concittadini il "buon figliuolo feroce". Ma egli fin dall’inizio dimostra la sua profonda volontà di essere appunto un inetto, portando a termine la sua silenziosa rivolta contro il padre, una presenza ancora molto viva in lui: ce lo dimostra il fatto che il figlio eredita la sua attività bancaria, assumendone tutti i benefici e i mezzi per la sua esistenza di borghese benestante, ma anche gli inconvenienti che da questo lavoro potevano derivare: come il padre, viene chiamato anch’egli usuraio.
Il suo atteggiamento nei confronti del genitore è quello di un’ostinata ribellione, una vera e propria aggressione alla figura paterna, una volontà di liberarsi dai pregiudizi della gente che pensa che il figlio sia come il padre; Moscarda si propone così di distruggere il vecchio se stesso, quello condizionato dalla nascita, dall’educazione e dall’ambiente, cancellando così l’immagine che di lui hanno gli altri.
Quest’ultimo è sempre stato una figura molto determinata nel far prevalere le sue idee sulla volontà del figlio, tanto che egli spesso si è trovato in difficoltà su quale decisione prendere; lo stesso Moscarda dice: “…per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.”
Ogni dimostrazione di affetto e tenerezza, permeata di compatimento e derisione, viene rivista dal figlio sotto una luce maliziosa e orribile: "…e quella tenerezza per me m’appariva ora terribilmente maliziosa".
In un episodio in particolare, quello del furto, risulta ancora più marcato il contrasto tra i due: Vitangelo, decidendo di sfrattare Marco di Dio, pensa di compiere un furto a se stesso ( la banca, in fondo, gli appartiene), in realtà compie un furto al padre e alla sua immagine sostitutiva, Quantorzo, amico e amministratore insieme a lui della banca.
L’aggressività contro la figura paterna, provoca in lui un’ansia angosciosa e un conseguente senso di colpa, tali da provare un desiderio di autodistruzione: “desiderai proprio di morire”.
Quest’ansia si materializza nella visione allucinata delle mani del padre, che si accampano da sole sullo scenario della memoria, staccate dal corpo, parte mostruosa separata dal tutto e perciò sinistra ed inquietante: “… e pensai all’improvviso che le mani di mio padre s’erano levate cariche d’anelli lì dentro a prendere gl’incartamenti dai palchetti di quello scaffale; e le vidi, come di cera, bianche, grasse, con tutti quegli anelli e i peli rossi sul dorso delle dita; e vidi gli occhi di lui, come di vetro, azzurri e maliziosi, intenti a cercare in quei fascicoli.”
Nella vertigine dell’angoscia, una memoria involontaria distrae per un attimo Vitangelo: quella del chioccolare di una gallina in una remota campagna dove egli non era più stato fin dall’infanzia.
Il ricordo lo riconduce allo scenario originario della nevrosi, quando essa si è formata, all’infanzia e al rapporto edipico con il padre che allora si era rivelato.
Dopo la visione delle mani e la memoria involontaria, compare una terza apparizione proveniente, questa volta, non dal piano dell’immaginazione e della memoria, ma dalla realtà: quella di uno scarafaggio che sbuca da sotto lo scaffale. Di colpo Vitangelo balza sopra l’insetto e lo schiaccia; uscendo prova il “bisogno” di annunciare al custode di averlo ucciso. Schiacciando lo scarafaggio, Moscarda ha distrutto l’immagine di sé come usuraio e il gesto simbolico dell’uccisione del padre è così finalmente compiuto, e proprio là dove più forte e diretto era il suo potere, nella direzione della banca.
Ma dato che "…l’usuraio Vitangelo Mostarda poteva sì impazzire, ma non si poteva in alcun modo distruggere", l’unica via di “salvezza” della propria identità è un irrimediabile allontanamento dal mondo, dagli altri, che ancora riescono a vivere senza avere una precisa coscienza dello loro condizione di maschere. Ormai smemorato di sé, non ha più passato né futuro, muore e rinasce ogni attimo, vive semplicemente, senza più nessun nome, nessun ricordo nella mente.
Questa, dunque, non è altro che un’ulteriore dimostrazione che Vitangelo Moscarda è un esemplare personaggio dei primi del ‘900 che prova rigetto per la figura paterna fino a desiderarne l’omicidio.

Relatrici: Annalisa Taddei, Irene Cristofori.