LODOVICO, FIGLIO DI UN MERCANTE O DELLA SUA EPOCA?
Il
punto di partenza di tutto è il complesso d’inferiorità che travaglia la
mente del padre, sciagurata vittima della mentalità oziosa e parassitaria della
seicentesca nobiltà italiana.
Quindi
nel suo errato credere che il lavoro fosse quasi un delitto ("Ma il fondaco,
le balle, il libro, il braccio gli comparivan sempre nella memoria, come
l’ombra di Banco a Macbeth") si era dato a vivere da signore, facendo sempre
sfoggia di ricchezze e allestendo banchetti a cui erano usualmente invitati "quei
parassiti che ponevano massima cura a non proferire parola che potesse sembrare
allusiva all’antica condizione del convitante".
Così
il padre di Lodovico "passò gli ultimi suoi anni in angustie" tenendo sempre
segreto nel dentro di sé la paura di essere schermito e tenuto di poco conto da
coloro che per lui contavano.
Il Manzoni, nobile di nascita ma borghese di cultura, non può che distaccarsi
pienamente, da un’antiquata ideologia che reprime con vergogna l’attività
lavorativa, negando di conseguenza alla borghesia quell’identità di classe da
cui nasce il mondo moderno.
La
figura di Lodovico si viene perciò a stagliare e a sviluppare in un particolare
ambito familiare e soprattutto in un antiquato, selettivo e chiuso mondo sociale.
"Fece
educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto
gli era concesso dalle leggi e dalle
consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì,
lasciandolo ricco e giovinetto. Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e
gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad essere
trattato con molto rispetto."
In
ciò consiste la vita familiare per il giovane figlio di mercante; niente svago,
niente amore, né comprensione, egli è solo un mezzo per divenire ciò che il
padre, tipico parvenu dell’Italia seicentesca che si adopera con zelo per
rimuovere dalla memoria la propria condizione di lavoratore e vivere mirando
ogni suo sforzo alla conquista di una vita piena di agii e raffinatezze
nobiliari, non era e non sarebbe mai stato.
Lodovico,
nonostante abbia ricevuto un’educazione degna delle migliori famiglie del
tempo, è sempre figlio di un mercante arricchito e perciò non considerato alla
pari, ma solo in posizione subalterna, dagli aristocratici di sangue.
Questa
situazione, insostenibile data la focosità del suo carattere e l’orgoglio
insegnatogli dal padre, non può che sfociare in un sovversivismo
individualistico.
Il
suo orgoglio lo costringe ad una solitudine quasi assoluta; la vendetta e il
dispetto lo portano ad un serrato antagonismo verso la nobiltà di sangue, che è
pur sempre segno di una dipendenza non completamente superata.
Gli
ossessionanti ed errati complessi del padre sembrano quasi per intero essersi
scaricati sul figlio, che ormai, in sostanza sradicato e privo di una precisa
identità (non è né zelante mercante né ozioso nobile), ha un equivoco
rapporto di attrazione-repulsione, amore-odio verso i veri signori, agli occhi
dei quali egli paventa soprattutto di apparire ridicolo.
Di
qui scatta la molla anarchica che lo spinge a combattere quel mondo tanto
agognato da lui e dal padre e che ora lo rifiuta.
Così,
suo malgrado, Lodovico diventa "un protettore degli oppressi, e un vendicatore
de’torti"; comunque il suo ruolo non è motivato né da amore per gli umili
né da un barlume di coscienza di classe, ma soprattutto dal piacere e dal gusto
della rivincita fomentato da un antico sentimento di subalternità sociale.
Lodovico
non è un cavaliere dell’ideale, ma come suo padre, seppur in maniera
differente (lui si mette in competizione, il padre tentava di comprare il
consenso con sfoggio di magnificenza e banchetti), si rivolta a quel mondo di
pregiudizi, di orgoglio, di faziosità, di malinteso senso dell’onore, dal
quale si vede allontanato.
Questa
chiusura mentale “dell’alta società” europea del Seicento trova,
all'interno de I promessi sposi,
calzante
esemplificazione nell'insensata causa che porta al cruento incidente che segna
la svolta decisiva nella vita di Lodovico.
Il
motivo, esaurientemente contemplato nei manuali cavallereschi del tempo,
consiste semplicemente in un fatto di “precedenza stradale”: chi deve
passare lungo il muro? Lodovico, che ha la destra, o l’arrogante aristocratico, per diritto
di classe?
Secondo
i trattati, l’intera colpa appartiene al giovane borghese, che dalla sua,
tanto è orgoglioso, non è disposto a riconoscere questo diritto al baldanzoso
nobile.
L’episodio
è raccontato con il massimo distacco dal Manzoni; tutto ciò è sottolineato da
interventi umoristici che hanno lo scopo di smascherare la falsità insita in
valori e comportamenti particolari: qui il diritto, l’onore, la rispettabilità
sono tutti idola tribus sottilmente abbattuti e derisi dal sentimento cristiano
dell’autore.
Inoltre la causa
belli e la disputa verbale prima dello scontro mostrano fino a che punto i due
contendenti siano alienati dal codice d’onore cavalleresco: non c’è libertà,
non c’è scelta, solo forma e preconcetti.
Il duello precipita
rapidamente nella fatale conclusione, ma ciò che deve interessare non è tanto
il fatto di sangue di per sé, ma le sue conseguenze morali e psicologiche, che
su Lodovico appaiono allo stesso tempo traumatiche e liberatorie.
Da ciò deriva la
catarsi del suo animo non angusto ma inibito da remore di costume che sfocia
nella conversione, già da tempo pensata, ma considerandola solamente come via
di fuga di fronte a grandi e insuperabili problemi con i suoi tanti nemici.
La scelta del
sacerdozio e dell’ordine
cappuccino trasformano il piccolo anarchico, imprigionato nei meccanismi politici
e sociali del suo tempo, in un rigoroso profeta della carità e della giustizia
cristiana, insomma in un uomo contro la logica dell’epoca in cui vive: Padre
Cristoforo.
Relatore: Erik Tagliaferri.