GERTRUDE: SIGNORA DI UN CONVENTO, VITTIMA DELLA VITA
La
storia di Gertrude ne I promessi
sposi non è un semplice fatto di cronaca nera conventuale, ma l’anello
di una catena del male, male ricevuto e male compiuto. Nel primo caso l’artefice
è il padre di Gertrude, nel secondo Gertrude stessa.
Il padre è un fanatico assertore del sistema feudale e della legge del
maggiorasco, la quale prevedeva che tutti i beni di una famiglia nobile fossero
ereditati dal primogenito. In questo modo, gli altri figli erano costretti alla
vita monacale: così viene decisa irrimediabilmente e irrevocabilmente anche la
vita della piccola Gertrude (“la nostra infelice era ancor nascosta nel
ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita.
Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per
la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza.”).
Il
padre esercita su di lei una lunga, tortuosa coercizione fin dall’infanzia
della piccola, tanto che la storia prende l’aspetto di un “romanzo di
formazione al negativo” che porta con sé tre elementi di malvagità: la
violenza, l’ipocrisia e la lusinga. Questa è forse la peggiore e sicuramente
la più subdola. La vita monacale viene presentata a Gertrude come un affare,
come un mezzo per esercitare il potere: potrà comandare, primeggiare e, infine,
andare “in Paradiso in carrozza”. Il convento le è presentato come
un giocattolo, come il diritto di poter riscattare la perdita della propria
libertà ostacolando quella degli altri. Dietro le lusinghe e l’ipocrisia si
nasconde, poi, la violenza dell’educazione del principe che tanto più è
crudele e spregevole tanto più fa leva sui sentimenti infantili: l’affetto
del padre, il desiderio di compiacergli, l’ossequio alla sua autorità, il
timore di essere dalla parte del torto.
è una violenza intelligentemente e
perfidamente studiata che gioca sui gesti d’affetto, sorrisi, parole dolci, di
elogio e di compiacenza, ma che, allo stesso tempo si serve di minacce, sguardi
cupi, segregazioni e non mancano i ricatti. Ed è proprio un ricatto che fa
capitolare le speranze di una vita felice e libera per Gertrude, e segna la
vittoria dei desideri e dei disegni del principe. L’occasione è banale: l’innocente
interessamento della giovane nei confronti di un paggio. Il principe fa leva su
un valore a cui Gertrude non è indifferente: l’onore, tipico della classe a
cui appartiene. Ipocrisia, onore e formalità sono le cause che spingono il
principe alla lusinga, alla violenza morale ed a una errata concezione della
religione e della vocazione alla vita monacale: egli diventa il simbolo di una
classe sociale intera, della sua arroganza, dei suoi privilegi, della sua
formalità.
Giudicando il comportamento del principe, Manzoni mette alla berlina una
società intera. Il giudizio dell’autore si concentra in particolare “sull’uso”
che viene fatto della monacazione: “ma la religione come l’avevano
insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio,
anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità
terrena”. è comunque una valutazione palesemente evidente, come
dimostrano certe dure affermazioni: “non ci regge il cuore di dargli in
questo momento il titolo di padre”.
Duplice è l’opinione che ha di Gertrude, espressa sempre in merito all’atteggiamento
tenuto nei confronti della religione. In un primo momento Manzoni compatisce il
suo personaggio, poiché è vittima di un male né voluto né cercato: nell’affermare
che Gertrude è “un’infelice”, l’autore esprime non solo un
giudizio morale sulle tragedie e sulle colpe del suo personaggio, ma prima di
tutto sottolinea che è un creatura di cui si prova pietà. L’atteggiamento
dell’autore cambia quando Gertrude dimostra la sua incapacità di volere, di
opporsi al padre (“<Gertrude> s’immaginava che la sua ripugnanza al
chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta
dello stato, fossero un colpa; e prometteva in cuor suo di espiarla chiudendosi
volontariamente nel chiostro”; “si pentiva di essersi pentita”) e
diventa sempre più critico quando la giovane monaca, dopo non aver saputo
imporsi, non accetta pienamente la vita religiosa, vive la menzogna, il delitto
ed il peccato in un luogo destinato alla fede. Allora Gertrude non è più “infelice”
ma “sventurata”. Dietro questo aggettivo si nasconde sia la
compassione del Manzoni, che non dimentica il male del principe, ma anche il
rigore del moralista, che condanna Gertrude come complice della distruzione
della sua stessa vita.
La giovane, inoltre, unisce alla sottomissione e al timore riverenziale verso il
padre, l’alterezza, la superbia e l’arroganza della classe nobiliare,
sentimenti riconoscibili nei tratti esterni del suo viso: da quella “bellezza
sbattuta sfiorita e […] scomposta”, quel “un contorno delicato e
grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione”, quelle
labbra che “quantunque appena tinte di un roseo sbiadito, pure, spiccavano
in quel pallore”, quegli occhi neri con un espressione di “investigazione
superba” e con “i loro moti […] subitanei, vivi, pieni d’espressione
e di mistero”.
Relatrice: Luisa Borghesi, Eleonora Blasi.