Tra Cinquecento e Settecento nasce un pensiero economico per la prima volta laico, che riabilita quel commercio sino ad ora considerato con sospetto dalla religione e vengono elaborate le prime teorie economiche. Non dobbiamo inoltre dimenticare “l’angoscia monetaria” avvenuta dopo il 1630 per l’esaurirsi delle miniere americane e la scarsità di oro e di argento che ne derivò; ed inoltre la concezione statica delle risorse finanziarie presenti sul pianeta: si pensa che le condizioni generali di un singolo stato possano cambiare e migliorare, ma sempre a scapito di altri. Si è convinti che non sia possibile produrre nuova ricchezza, ma che la si possa semplicemente spostare da uno luogo all’altro. Di qui nasce un furioso accanirsi a proteggere da un lato e a sottrarre ed invadere dall’altro.
Il mercantilismo è stata l’ideologia economica degli stati nazionali nella loro prima fase di crescita. Essa è caratterizzata da tre aspetti principali:
Interventismo: lo stato promuoveva in prima persona o favoriva lo sviluppo di monopoli od oligopoli altamente regolamentati. In generale, la produzione ed il commercio erano sotto il controllo dello stato, il quale mirava a creare un saldo positivo (surplus) tra le vendite e gli acquisti sui mercati esteri e a creare un commercio internazionale. Si crea anche un mercato interno nazionale ove le merci e le persone possano circolare liberamente.
Fiscalismo: il favore dato ai monopoli deriva dal fatto che essi erano più controllabili dal punto di vista fiscale ed aveva come principale obiettivo quello di assicurare una fonte di entrata per lo stato; proprio per aumentare le esportazioni venne istituito un sistema doganale per regolare le tasse sulle merci in entrata e in uscita dal paese.
Egomonismo: la produzione ed il commercio erano mirati ad un aumento della quantità di metalli preziosi incamerati dallo stato in quanto ritenuti indice del suo grado di potenza e di ricchezza in rapporto agli altri stati.
A partire dal XVI fino alla metà del XVIII secolo i principi del mercantilismo rappresentarono l’ideologia e la pratica dominante del potere . Questo avvenne in particolar modo in Inghilterra e in Francia e, in misura ridotta, in Svezia, Prussia e Russia. La grande stagione del mercantilismo finirà attorno alla metà del settecento, quando ci si renderà conto che un’eccessiva protezione doganale e un’ossessiva ricerca della tesaurizzazione sono più vincoli che trampolini di lancio a un dispiegarsi completo delle attività economiche e finanziarie. Cadrà, in quegli anni, il mito di una ricchezza globale del pianeta sempre costante e ci si renderà conto, usando le parole di un uomo d’affari inglese, che “tra due navi che trasportano una un carico di lana e tessuti, l’altra un forziere d’oro, non esiterei a scegliere la prima”.
Il
liberismo è una dottrina economica che propugna l’astensione dello stato da
ogni interferenza nei confronti delle attività produttive e commerciali.
Principi liberistici furono sostenuti già dai fisiocratici nella seconda metà
del ‘700, ma la paternità del vero e proprio liberismo è da attribuire
all’economista inglese A.
Smith; il quale fonda l’esaltazione della libertà
economica sulla fiducia che un ordine naturale si sarebbe realizzato se
l’autorità pubblica non avesse creato ostacoli con interventi inopportuni:
purché agisse in condizioni di concorrenza, ciascun individuo, nel perseguire
il proprio interesse avrebbe finito con l’assicurare il benessere di tutti.
“liberismo” indica anche una politica economica basata sulla libertà degli
scambi commerciali con l’estero; è pertanto sinonimo di liberoscambismo. A.
Smith sostiene infatti che il commercio estero permette l’esportazione del
prodotto in eccedenza che altrimenti, nel paese di produzione, non avrebbe una
propria domanda.
L’economista scozzese, autore del primo trattato sistematico di economia
politica, Indagine sulle natura e le cause della ricchezza delle nazioni, (1776),
è il primo teorico dell’incremento della produttività del lavoro attraverso
la crescente divisione e specializzazione, nonché il primo ideologo del
capitalismo. Riflettendo sulla divisione del lavoro in atto nelle prime
fabbriche inglesi, Smith sostiene che la causa principale del progresso nelle
capacità produttive, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e
intelligenza con cui viene svolto e diretto, sembra essere la frammentarietà
con cui viene svolto. Egli prende in considerazione una modestissima
manifattura, quella che produce spilli. Se un operaio fa da solo uno spillo
intero è difficile che possa farne più di uno al giorno e impossibile che
possa arrivare a farne venti. Se invece la lavorazione è divisa in fasi diverse
e in tanti “mestieri particolari”, dieci operai riusciranno a fare
quarantottomila spilli al giorno. Inoltre la specializzazione del lavoro
comporta un’attenzione massima ai dettagli e quindi favorisce l’invenzione
di nuovi macchinari; anzi, secondo
Smith, l’invenzione di quest’ultime sarebbe una sua diretta conseguenza. Il
suo giudizio sulla divisione del lavoro è fin troppo entusiastico: egli vi vede
esclusivamente un mezzo per incrementare la produzione. Alcuni sociologi del
lavoro hanno però osservato che proprio la divisione e specializzazione del
lavoro sono alla base dell‘alienazione dell’operaio.
Mentre l’artigiano conosceva tutto il ciclo produttivo, che dipendeva
interamente dalla sua abilità manuale, l’operaio moderno ne conosce solo un
frammento minimo; inoltre il suo lavoro diventa completamente meccanico e del
tutto ripetitivo: l’individuo tende a trasformarsi, come dirà Gramsci, in un
“gorilla ammaestrato”.
L’opera principale del grande economista inglese David Ricardo “I principi
dell’economia politica e dell’imposta” mette invece in rilievo come
l’introduzione delle macchine nell’industria determini la caduta della
domanda di manodopera e la conseguente “disoccupazione tecnologica”, male
inevitabile del progresso industriale. Queste contraddizioni del sistema
capitalistico minacciano la prospettiva dello sviluppo economico e ne lasciano
prevedere l’arresto, che può essere ritardato se vengono sacrificati gli
interessi dei proprietari terrieri mediante la liberalizzazione del commercio
internazionale dei beni alimentari. Questa politica di liberalismo economico che
fu adottata dall’Inghilterra fino alla Prima Guerra Mondiale fu resa possibile
grazie al grande vantaggio tecnico e produttivo che la nazione aveva raggiunto
rispetto agli altri paesi europei.
Nel corso del XIX secolo il liberismo determinò l’affermarsi del
capitalismo. L’evoluzione di questo sistema comportò un drastico
mutamento di mentalità nei confronti dell’attività economica considerata per
lo più ignobile nella cultura classica, guardata con diffidenza nel
cristianesimo medioevale, mentre ora l’emergente ceto borghese la poneva come il massimo valore. Alcune innovazioni
tecnologiche permisero la
progressiva espansione dell’attività mercantile, sia nel senso di allargarla
a zone prima escluse, sia nel senso di aumentare la produzione di beni di
consumo. Tra i secoli XV e XVI cominciò così il grande ciclo espansivo del
commercio mondiale guidato dall’Europa nordoccidentale.
Sorbart sottolineò il ruolo dell’etica attivistica di concezioni religiose
come il calvinismo nel costruire un terreno favorevole per lo sviluppo dello
spirito capitalista. Ciò spiegherebbe anche l’originaria diffusione
geografica del capitalismo, più tardiva nei paesi rimasti legati alla
Controriforma.
Capitale significa soprattutto macchinari utilizzati per la produzione di beni.
Con questa qualifica, il capitalismo è il sistema economico di produzione
basato sull’uso estensivo e concreto dell’uso delle macchine. Il capitalismo
si caratterizza quindi per l’uso del capitale (macchine) e per il ruolo
centrale da esso svolto rispetto ad altri fattori di produzione (terra, lavoro).
Quella capitalistica è un’economia di mercato. Vale a dire che
l’imprenditore lavora per lanciare la sua merce sul mercato: questo determina
qualità, prezzo, ecc. Poiché l’impresa, in questo sistema è un’entità
indipendente, si trova contrapposta alle altre imprese attraverso il mercato.
Incontrandosi sul mercato le imprese si mettono in concorrenza tra di loro.
L’aumento degli scambi commerciali postulava però l’abolizione delle
numerose barriere doganali esistenti ed una maggiore sicurezza sulle strade e
sulle rotte marittime ed uno stato nazionale moderno poteva meglio garantire
tutto ciò.
Anche K. Marx, contribuì in modo decisivo a rivolgere l’attenzione comune al
concetto di capitalismo, anche se egli preferì usare l’espressione “modo di
produzione capitalistico”. Secondo Marx fu la continua crescita dei mercati a
richiedere la nascita della grande industria moderna e fu proprio la grande
industria a creare il mercato mondiale e a favorire lo sviluppo della borghesia.
“ Nuove industrie soppiantano le vecchie, industrie la cui nascita diventa una
questione di vitale importanza per tutte le nazioni civili, industrie che non
lavorano più le materie prime di casa, ma quelle provenienti dalle regioni più
lontane, e i cui prodotti non vengono utilizzati solo nel paese stesso ma in
tutte le parti del mondo. Al posto dell’antica autosufficienza e delimitazione
locale e nazionale si sviluppano traffici in tutte le direzioni, si stringe una
reciproca interdipendenza tra le nazioni. E ciò sia nella produzione materiale
che in quella spirituale.” Così scrisse Marx nel Manifesto. Tuttavia secondo Marx il modo di produzione capitalista dovrà essere
superato dal socialismo.
Fonti:
- Carlo Cartiglia,2.Nella storia, Loescher
-
http://polyarchy.org/manifesto/italiano/passato.passato.html
- Il Manifesto di Engels e Marx
-
Il mercato planetario di Arianna Castagnoli