Urbanistica

L’urbanistica, disciplina che studia la città e ne pianifica gli sviluppi, è nata dalla necessità di affrontare con metodo i gravi problemi determinati dal mutamento del fenomeno urbano a causa della rivoluzione industriale e della conseguente trasformazione della struttura sociale.
Prima grande conseguenza della rivoluzione industriale fu lo svilupparsi del fenomeno dell’urbanesimo che ha comportato la definitiva scomparsa di antichi borghi rurali e l’espansione caotica di città estremamente squallide dominate dalle ciminiere fumanti delle fabbriche. La città perse, così, ogni elemento caratterizzante e divenne il libero campo d’intervento della grande speculazione edilizia.
All’origine, la ricerca urbanistica aveva un carattere umanitario: si trattava di sottrarre la nascente classe operaia dalla condizione di estremo avvilimento morale e materiale. Indagando le condizioni di esistenza dei meno abbienti, localizzandone i casi tipici, essa determinò gli stimoli più forti per la creazione di tutte quelle previdenze edilizie e d’igiene sociale che lo stato avrebbe dovuto assumersi gradatamente. Si affermò così l’idea della casa concepita come diritto per tutti e divenne chiara la necessità di stabilire un coordinamento nei rapporti umani della convivenza. Oggi tuttavia ci rendiamo conto che esse non riuscirono a coordinare e a risolvere su uno stesso piano d’azione i problemi della società ottocentesca e quelli materiali della struttura urbana.
La massiccia presenza di fattori negativi nella struttura della città industriale provocò tra gli individui più pronti a comprendere la gravità dei problemi, un sentimento di rifiuto che tuttavia non perse di vista la prospettiva comune rappresentata dall’avvento di un’era nuova, l’Era della Macchina. Questi uomini mantennero vivo uno stato di tensione che agì come forza creatrice all’interno delle squallide abitazioni che si stavano costruendo. Per merito di questi uomini si rilevarono i pericoli a cui andava incontro tutta la società per la mancanza di adeguate condizioni igieniche in interi quartieri poveri; si mise in luce l’inopportunità di mantenere in condizioni precarie di esistenza la massa lavoratrice che, lasciata in questo stato, rendeva meno all’imprenditore di quanto avrebbe potuto con una vita più confortevole. Fra questi uomini, nella prima metà dell’ottocento l’inglese Owen e il francese Fourier proposero la costruzione di unità edilizie per l’abitazione operaia, con gestione cooperativa. Essi si proposero di risolvere il problema della convivenza   non attraverso modifiche strutturali al tessuto edilizio delle città in espansione, ma creando un ambiente costruito ad hoc.
Sorsero così i primi villaggi operai. Owen, in particolare, convinto che l’influenza dell’ambiente fosse determinante per la formazione del carattere dell’operaio, individuava nel sistema della fabbrica, fondato sulla concorrenza e sull’avidità, la radice dell’egoismo dominante nella società; per questo propose un modello di vita comunitario basato sulla creazione di insediamenti autosufficienti comprendenti milleduecento abitanti circa, nei quali la spinta dell’interesse personale non sarebbe stata più la molla dell’attività produttiva, contrastando così quello sviluppo capitalistico che, anziché fornire condizioni di vita più dignitose, aveva aggravato la miseria dei lavoratori. La proposta di Owen è considerata il primo piano urbanistico moderno sviluppato in ogni sua parte, dalle premesse politico-economiche al programma edilizio e al preventivo finanziario.
Le proposte urbanistiche di Owen e Fourier, chiaramente collegate con la nascente ideologia socialista, rimasero in gran parte utopie; esse, infatti, avevano rifiutato di affrontare dall’interno i problemi della città in espansione.
In questo clima nuovo la figura dell’ingegnere emerge su tutte le altre: egli è il realizzatore di trasformazioni che si concretizzano nella tecnica delle nuove strutture urbane; al contrario l’architetto non trova, in questo periodo di conquiste tecniche e scientifiche, stimoli spirituali che lo inducano ad agire con pienezza nel processo concreto degli eventi. Egli non è capace di intendere il significato nuovo della società e ciò lo spinge a rifugiarsi in un mondo spirituale di immagini estetiche.  Così le correnti architettoniche, sognando e realizzando trasformazioni monumentali nel taglio dei quartieri di rappresentanza ed esaltandone i valori celebrativi, trascurano quasi del tutto il problema delle masse umane in espansione nei quartieri poveri della periferia. Solo molto più tardi, gli architetti si accorgeranno dell’importanza sociale di questi quartieri e dell’errore di non averli concepiti in funzione della nuova struttura della città, che avrà assunto notevoli deformazioni nel tessuto edilizio e più ancora nel costume di vita delle classi meno abbienti.  Non sarà più possibile trovare mezzi adeguati per correggere tali mostruosità che ancora oggi persistono e stanno propagando quella malattia di cui non soffre solamente l’edilizia più povera, ma tutta la struttura della città.
Nello specifico, si rendono necessarie stesure di piani regolatori che programmino la crescita urbana in modo organico, non consentendo più un’espansione spontanea e incontrollata. I piani urbanistici dell’ottocento prevedono un disegno urbano che si sviluppa secondo uno schema regolare a scacchiera, a Barcellona come a New York. Un’altra peculiarità è costituita dagli “sventramenti” operati nei centri storici: si creano cioè nuove strade, attuando demolizioni spesso indiscriminate nel tessuto antico delle città. Così, durante il Secondo impero, venne anche modernizzata la struttura urbanistica di Parigi, grazie all’opera guidata dal prefetto Haussmann: grandiose opere di sventramento e nuove costruzioni diedero alla parte centrale della città il suo aspetto attuale. Ne risultò, tra l’altro, la netta separazione dei quartieri operai da quelli borghesi e l’aumento rapido del valore dei suoli edilizi e delle connesse speculazioni, che furono ovunque la duratura e grave conseguenza dell’urbanesimo delle società industriali.