Come ha osservato Edward
Goldsmith[1]
i due termini "sviluppo" e "colonialismo" (almeno nella sua
ultima fase, dopo il 1870) stanno forse a indicare un solo e unico fenomeno, e
quindi un solo obiettivo da perseguire. Così dichiarava infatti Jules Ferry, a
Parigi, alla Camera dei Deputati, nel giugno del 1885: "La
questione coloniale in un Paese come il nostro, in cui, per il suo stesso
carattere, l'industria è legata a considerevoli esportazioni, è vitale per la
conquista dei mercati. Da questo punto di vista, la fondazione di una colonia
equivale alla creazione di un mercato".
Parecchi paesi del terzo mondo, soprattutto asiatici, non erano affatto felici
di offrire alle grandi potenze occidentali né i loro mercati, né la loro
manodopera a basso costo, né le loro tanto desiderate materie prime. In nessun
modo volevano permettere che delle industrie straniere operassero sul loro
territorio e aprissero grandi cantieri di "sviluppo" della rete
stradale o delle miniere. I paesi colonialisti cominciarono allora a esercitare
pressioni di ogni tipo: ci sarà bisogno di due guerre, per esempio, per
costringere la Cina ad aprire le sue porte al commercio inglese e a quello
francese. Lo sviluppo del commercio finì per rendere necessaria l'imposizione
di concessioni via via più ampie, creando condizioni sempre più favorevoli per
le imprese europee. Se l'opposizione locale era troppo forte, se un governo
nazionalista o populista arrivava al potere, le potenze europee ricorrevano
semplicemente all'occupazione militare e all'annessione. "Il colonialismo -
scrive uno storico britannico - non era una scelta, ma un'ultima risorsa".
Il colonialismo ha facilitato il mantenimento di condizioni favorevoli al
commercio e alla penetrazione dell'Occidente. Verso la metà del XX secolo,
all'epoca della decolonizzazione e delle prime indipendenze, gli investitori e i
commercianti europei poterono infine agire con loro piena soddisfazione
nel quadro politico della maggior parte degli stati indigeni ricostruiti (come
avevano sognato di fare i loro predecessori nel XIX secolo) senza peraltro dover
necessariamente affrontare i problemi legati al sistema, in passato
indispensabile, della dominazione diretta. Detto in altri termini: il
colonialismo non è morto per la rinuncia da parte delle potenze europee ai
vantaggi che procurava, ma piuttosto perché ormai esse erano in grado di
ottenere gli stessi vantaggi con metodi più accettabili e più efficaci.
Dal 1860 al 1873, Londra è riuscita a creare il primo nucleo di un
"sistema mondiale universale di flussi virtualmente illimitati di capitali,
merci e lavoratori", constata lo storico britannico Eric Hobsbawm.
Solo gli Stati Uniti sono rimasti sistematicamente legati a una politica
protezionistica, riducendo i loro dazi doganali solo dal 1832 al 1860 e poi dal
1861 al 1865, dopo la guerra di Secessione. Verso il 1870, l'Inghilterra ha
cominciato a perdere terreno rispetto ai suoi concorrenti. I valori delle sue
esportazioni hanno subito un tracollo una prima volta dal 1870 al 1893, e poi,
nuovamente, alla fine del secolo. Contestualmente le crisi prolungate degli
anni 1870 e 1890, facevano crescere lo scetticismo nei confronti della reale
efficacia del libero scambio. Soprattutto nell'ultimo decennio del
secolo i
paesi europei, fatta eccezione per l'Inghilterra, il Belgio e i Paesi Bassi,
hanno aumentato i loro dazi doganali. Vedendo restringersi i loro mercati
tradizionali, le grandi imprese hanno cominciato a rivolgere i propri interessi
verso quelli dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina e del Pacifico, resi
accessibili dalle navi a vapore rapide e di grosso tonnellaggio.
Tutti questi fattori diedero origine ad un nuovo colonialismo. Nella maggior parte
dei casi questo processo fu esasperato ed aggressivo perché dominato solo dalla
sete di ricchezza e di potere dei coloni. Si verificò infatti una spartizione
del mondo, spesso con conflitti armati, tra i grandi e potenti stati europei.
Alcune nazioni, su tutte l’Inghilterra, imposero alle loro colonie anche la
propria cultura e il proprio modo di vita.
Questa situazione diede origine alla formazione di nuovi ceti borghesi
"indigeni" che più tardi, come in India e poi in Sud Africa,
avrebbero preso nelle proprie mani il governo del loro paese, e quindi
l’indipendenza.
Prima della realizzazione del canale di Suez le potenze europee si limitarono a
conquistare le coste, i porti e i punti strategici lungo le grandi rotte
marittime.
Questo canale permise alle navi europee di accorciare notevolmente le rotte per
raggiungere i paesi dell’Asia, in quanto non era più necessario circumnavigare
l’Africa.
In tal modo si risparmiava anche sui prezzi del noleggio delle navi da
trasporto: questo risparmio si ripercuoteva sul costo delle merci esportate ed
importate.
Il Mediterraneo, dopo la scoperta dell’America, aveva perso la sua importanza
commerciale e, proprio in questi anni, si ripopolò di navi e riconquistò la sua antica
posizione di centro del commercio mondiale.
Fu allora che i grandi esploratori (Livingstone, Bottego, Savorgnan di Brazzà)
cominciarono a penetrare nelle regioni interne dell’Africa; dietro di loro
marciavano gli eserciti coloniali che prendevano possesso, in nome dei
rispettivi stati, delle terre del continente africano.
Francia e Inghilterra furono i primi stati europei ad insidiarsi in Africa: la
prima, che aveva già conquistato l’Algeria (1830), estese i suoi territori
nella parte occidentale ed equatoriale del continente, mentre la seconda, che
aveva tolto l’Egitto alla Turchia per il controllo del canale di Suez, entrò
in possesso di un sistema coloniale che dal Cairo arrivava fino a Città del
Capo.
Qui gli inglesi tolsero ai Boeri le terre dell’Orange e del Transval, ricche
di giacimenti minerari.
Alla spartizione dell’Africa fecero parte anche il Belgio (Congo), l’Italia
(Eritrea e Somalia), la Germania (Africa sud-occidentale) e l’Olanda
(Indonesia).
[1] Fondatore della rivista The Ecologist (Londra), autore, in particolare, di Rapport sur la planate Terre, Stock, 1990.