L’Italia post-unitaria (1861-1901)
Il 17 marzo 1861 venne proclamato
il Regno d’Italia dal parlamento piemontese. Con i plebisciti del 1860 all’unità
del Paese mancavano ancora il Veneto (1866), Roma (1870) e il Trentino Alto
Adige e il Friuli Venezia Giulia (1918). Al di là delle importanti questioni
concernenti il compimento del processo unitario, permanevano problemi irrisolti.
Tra questi possiamo ricordare il
divario tra Nord e Sud, accentuato, all’indomani della spedizione garibaldina
dei “Mille” da un accordo tra la borghesia industriale piemontese e i grandi
proprietari terrieri del Meridione. La “questione meridionale” assunse
rilievo soprattutto a causa del fenomeno del brigantaggio che richiese
addirittura l’intervento dell’esercito (legge Pica - 1863) per essere
fermato. Il problema finanziario costituiva un altro punto delicato per un Paese
uscito da un lungo periodo di guerre. La risposta più immediata fu quella di
giungere ad un pareggio di bilancio che però ebbe come prezzo un disinteresse
per la questione sociale.
L’esigenza di definire l’assetto
da dare al Paese aprì il confronto tra la Sinistra, più favorevole ad una
politica decentrata che riconoscesse le autonomie locali, e la Destra orientata
all’accentramento e alla “piemontesizzazione”. Pochi mesi dopo la
proclamazione del Regno d’Italia Cavour morì e le questioni aperte vennero
affrontate dalla Destra storica che, in parlamento, ebbe il sopravvento sulla
Sinistra.
La Destra affrontò il problema
di Roma capitale seguendo sia le strade diplomatiche, sia incoraggiando
soluzioni militari, non sempre però con piena convinzione. Il ministro Rattazzi
permise infatti a Garibaldi di muovere dalla Sicilia verso Roma, ma poi
intervenne a fermarlo in Aspromonte (agosto 1862) a causa della decisa
opposizione di Napoleone III che guardava con attenzione al problema di Roma. In
Francia il potere di Napoleone III poggiava su una stretta alleanza con la
Chiesa e l’imperatore non voleva minarla.
Nel 1864 possiamo ricordare la
“Convenzione di Settembre” con cui, da un lato, il ministro Minghetti
accettava di trasferire la capitale da Torino a Firenze, mentre Napoleone III
attenuava, dall’altro lato, la presenza militare francese a Roma. Sempre in
quell’anno, in dicembre, il papa Pio IX, con l’enciclica Quanta cura
e il documento annesso il Sillabo, denunciava gli errori del liberalismo.
Il conflitto internazionale
riprese con la Terza guerra d’Indipendenza che si inseriva in un gioco di
alleanze promosso dal cancelliere prussiano Bismarck, nell’ottica di aprire un
conflitto con l’Austria sia sul fronte settentrionale che su quello
meridionale. Il nostro esercito non ebbe successo e così anche la marina, solo
Garibaldi ottenne una vittoria in Trentino. La Prussia riuscì invece a
sconfiggere l’Austria e in base agli accordi militari il nostro Paese ottenne
l’annessione del Veneto (ottobre 1866).
Garibaldi promosse un altro
intervento rivolto alla liberazione di Roma con l’impresa di Mentana (1867).
Napoleone III inviò un contingente militare ma il Piemonte non intervenne.
Affinchè la liberazione di Roma potesse avvenire, occorreva distogliere l’attenzione
francese dalla capitale. Un’occasione in tal senso fu fornita dalla sconfitta
di Napoleone III nella guerra franco-prussiana del 1870. Il Piemonte colse l’occasione
per intervenire, con il generale Raffaele Cadorna, a Porta Pia (20 settembre
1870) e l’anno successivo si effettuò il trasferimento della capitale a Roma.
Questo ulteriore passo nel senso dell’unità nazionale aprì il problema dello
scontro tra Stato unitario e Chiesa. Il Piemonte promulgò le leggi delle
guarentigie che regolavano i rapporti tra Stato e Chiesa, ma si muoveva al di
là di un accordo bilaterale e il papa lo respinse. La posizione della Chiesa si
radicalizzò ancor più con la dichiarazione del non expedit (1874) con
la quale si invitarono i cattolici a non partecipare alla vita politica e in
particolare alle elezioni. Nel 1876 la Destra riuscì a conseguire il pareggio
di bilancio, ma il rigore della politica economica seguita aveva attenuato gli
appoggi politici e si verificò uno spostamento a sinistra con una “rivoluzione
parlamentare” che portò all’affermazione della Sinistra storica con
Depretis.
Il governo del Depretis
(1876-1887) fu però caratterizzato da una politica “trasformista” che
prevedeva alleanze e appoggi con esponenti della Destra. La rivoluzione
parlamentare proposta risultò quindi attenuata nei suoi intenti. La Sinistra
realizzò alcune delle riforme proposte, dall’istruzione (1876), all’allargamento
del diritto di voto (1882). Abolì la tassa sul macinato che tutelava gli
interessi dei grandi latifondisti del Meridione e pesava sulle classi meno
abbienti con un costo più alto del pane.
In politica estera Depretis
aderì alla proposta di Bismarck di dar vita ad una Triplice Alleanza tra
Prussia, Austria e Italia. Il nostro Paese era mosso in tal senso soprattutto
dall’esigenza di tenere a freno un’eventuale espansione della Francia a
nostro danno. Il rinnovo del 1887 prevedeva importanti clausole per risolvere la
questione del Trentino e del Friuli Venezia Giulia (compensi all’Italia nel
caso di una espansione dell’Austria verso i Balcani). Con Depretis prese avvio
una politica di espansione coloniale che acquisiva con lui soprattutto un
significato demografico: creare spazi per risolvere il surplus demografico nel
Meridione. Lo scontro di Dogali si risolse però in una sconfitta del nostro
contingente. L’insediamento coloniale resterà così circoscritto ad alcune
regioni dell’Eritrea, ma l’Etiopia ci resterà preclusa. L’ultima
iniziativa presa dal Depretis, prima della sua morte, fu la definizione di una
tariffa doganale decisamente protezionista, a causa della “grande depressione”
(1873-96), che contribuirà a segnare i caratteri di un particolare modo di
intendere i rapporti economici e poi politici tra gli Stati: l’età dell’imperialismo.
Crispi, primo ministro dopo la
morte di Depretis, attuerà una politica coloniale molto più decisa, sia in
Eritrea che in Somalia e accentuerà il conflitto doganale con la Francia. In
quegli anni si definirà la posizione politica del mondo operaio. Il papa Leone
XIII affrontò i problemi sociali con l’enciclica Rerum Novarum (1891),
mentre, sul versante della sinistra, si costituirono le prime associazioni
operaie: le Camere del Lavoro (1891), i Fasci dei lavoratori in Sicilia
(1892-93) e il Partito Socialista Italiano (1893). Crispi, dopo una breve ma
significativa presenza del ministero Giolitti (significativa soprattutto per le
posizioni di apertura da lui assunte in riferimento alla questione sociale),
tornò al governo e si mosse con durezza nei confronti delle forze socialiste e
delle organizzazioni operaie. Lo scontro coloniale portò nuovamente Crispi a
spingersi verso l’Etiopia, come già fece Depretis, ma il nostro esercito
subì una nuova e più grave sconfitta ad Adua (1896). Crispi fu costretto a
dare le dimissioni.
Il periodo che va dal 1896 al
1901 prese il nome di “crisi di fine secolo” a causa dei gravi disordini
sociali che lo percorsero nonché dei tentativi reazionari che fallirono.
Manifestazioni popolari scoppiarono in varie città italiane, ma la più grave
fu quella sul caro pane a Milano che venne repressa con l’intervento dell’esercito
sotto la guida del generale Bava Beccaris (1898). Il tentativo di attuare leggi
repressive venne ostacolato dal ricorso dei parlamentari di sinistra alla
pratica dell’ostruzionismo. All’inizio del nuovo secolo (luglio 1900) l’assassinio
del re Umberto I ad opera dell’anarchico Bresci segnò il punto culminante
della crisi. Il nuovo sovrano, Vittorio Emanuele III, figlio di Umberto, si
apprestò a regnare nei primi anni di un secolo che si apriva all’insegna
della belle époque. Nel 1901 prese avvio l’età giolittiana che
accompagnò la storia del nostro Paese fino alle soglie del primo conflitto
mondiale.