IL RIMORSO DEL PASSATO, LA CONSOLAZIONE DEL PRESENTE
La
morte del padre di Zeno è uno degli eventi che maggiormente hanno segnato la
coscienza del protagonista. "La morte di mio padre fu una vera, grande
catastrofe. (...) Ero un uomo finito. M’accorsi per la prima volta che la parte
più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me", racconta Zeno
nel suo diario spirituale.
Assistiamo,
nel capitolo “La morte di mio padre” de La
coscienza di Zeno, all’ultimo colloquio tra il protagonista e suo
padre, alla successiva agonia di lui colpito da un edema cerebrale e al mutare dei sentimenti di Zeno nei
confronti di un uomo che prima aveva temuto e ignorato. La narrazione di questo
drammatico evento è dominata, per intero, dal conflittuale rapporto che emerge
tra il “vecchio”, ormai morente, e “Zeno giovane”. Lo Zeno adulto che
narra il romanzo, infatti,
mostra di essere consapevole degli errori del passato e delle
incomprensioni che sono state causa del tormentato rapporto padre-figlio.
Il
padre, da sempre, aveva rappresentato, per Zeno, l’equilibrio e la tranquillità
quotidiana, "la fiducia che rende tanto dolce la vita" e il prolungarsi dei
suoi buoni propositi giovanili; era "il vecchio Silva manda denari", come
Zeno stesso aveva soprannominato. Nel corso degli anni trascorsi insieme, Zeno
non aveva mai tentato di avvicinarsi a lui, "non aveva mai vissuto per lui,
anzi lo aveva evitato"; il loro rapporto si era sempre basato
sull’indifferenza e su un incolmabile distacco tra il padre e il figlio, un
distacco sia affettivo ,che nessuno dei due aveva colmato,
ma anche culturale, dato il basso livello intellettuale del “vecchio”
rispetto al “giovane”.
Nessuna
somiglianza vi era tra loro: Zeno rappresentava la “forza” espressa dalla
nuova società moderna, volta al cambiamento e ad una nuova sensibilità
interiore, il padre invece si rispecchiava nella “debolezza” del passato,
legato alla morale e alla religione. Si chiudeva nelle proprie credenze e nei
propri dogmi: “La terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei
cardini. Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si muoveva
finiva con l’arrestarsi”.
Tale
insofferenza e ostinazione egli mostrava anche verso Zeno e due cose in
particolare di lui non tollerava: “la sua distrazione e la sua tendenza a
ridere delle cose più serie”.
Quando
il padre viene colpito dalla malattia assistiamo ad un progressivo cambiamento
di entrambi: lui si fa più mite e affettuoso, Zeno viene assalito da un enorme
senso di colpa. Il padre, soltanto nel momento in cui sente vicina la morte,
avverte la solitudine e l’incomunicabilità che avevano caratterizzato il loro
rapporto; cerca quindi di riavvicinarlo a sé e di renderlo partecipe delle
verità conquistate in tanti anni di vita, benché provi timore nel confidarsi
con un figlio schernevole; una sera gli rivela “in fondo siamo noi due soli a
questo mondo”. Il bisogno del padre di ristabilire un sottile contatto con la
vita e con il figlio non viene però compreso da Zeno, che, fino agli ultimi
momenti di coscienza del padre, si rifiuta di superare l’ostilità e i
pregiudizi nei suoi confronti. Nella notte in cui suo padre perde i sensi e Zeno
se lo trova di fronte “più vicino alla morte che a lui” viene
assalito dalla paura unita ad un forte rimorso: ricorda gli ultimi colloqui
fatti, l’indifferenza mostrata alle sue parole e comprende la sua cecità nei
confronti della malattia del padre. Zeno avverte di essere lui “il debole”;
si chiede: “che cosa farò io ora a questo mondo?”. Per soddisfazione di suo
padre si era sempre
sforzato: “il successo cui anelavo avrebbe dovuto essere il mio vanto verso di
lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora egli
se ne andava convinto della mia insanabile debolezza”. Questi erano i suoi
rimorsi e i suoi rimpianti: le lacrime divennero il rifugio di Zeno, un mezzo
per annebbiare la ragione, allontanare le colpe e giustificare la sua mancanza:
sapeva di non aver amato abbastanza suo padre e di essere stato un pessimo
figlio.
Nel
corso della malattia, quando ormai non vi erano più speranze, Zeno giunge ad
augurargli la morte: da allora, oltre che pieno di sensi di colpa, si sentirà
anche l’assassino di suo padre e il terrore di vederlo tornare cosciente lo
assillerà fino all’ultimo.
Al
momento della morte, lo schiaffo del padre inflitto sulla guancia di Zeno,
probabilmente involontario e provocato da un tentativo di facilitarsi la
respirazione, diviene la prova, per il protagonista, della sua colpevolezza di
aver mancato all’amore filiale e simbolo della punizione paterna. Tale gesto
rimarrà impresso nella sua memoria come emblema di una colpa mai espiata.
Ma,
nella conclusione al capitolo, Zeno ritorna “alla religione della sua
infanzia”: il ricordo di suo padre diviene sempre più dolce, immagina di
parlare con lui in perfetto accordo e di potergli far capire che lui non aveva
colpe. La relazione con il padre, che era fonte di dolore per Zeno, viene da lui
travisata per la propria pace interiore, nel riconoscimento della
“verità” che risiede nella figura paterna e nel passato.
Relatrice: Gianna Cestelli.