Gli europei riuscirono in tempi brevi a sconvolgere le realtà politiche, economiche e sociali di antiche civiltà, con diverse caratteristiche a seconda della realtà locale e internazionale. La nostra relazione prenderà in considerazione la storia dei principali stati colonizzatori e colonizzati, evidenziando le peculiarità di ogni paese durante il periodo del 1800.
In
America centro-meridionale esistevano civiltà antichissime, con
organizzazioni politiche ed economiche complesse spazzate via
dai conquistadores in pochissimi
anni, sconfitte dalla superiorità di mezzi bellici, dalle malattie
importate dagli europei e dall'organizzazione strettamente gerarchica della
vita politica. Le colonie potevano essere di due tipi: d’insediamento:
create dall’afflusso di emigranti che abbandonavano la madre patria per
motivi economici, politici, religiosi; commerciali: usate come fonti di
materie prime. Il tipo di colonialismo che viene a svilupparsi nella prima
età moderna in America Latina è maggiormente un colonialismo di
insediamento. Se nella prima metà dell’800 il motivo che spingeva
alle migrazioni era per lo più la ricerca della libertà, dal 1860 in poi
la gente era spinta ad emigrare da motivi economici. La povera gente che
viveva in condizioni di grande povertà e fame vedeva l’America Latina
come una terra dove avrebbe potuto trovare nuove terre e una nuova vita. I
Paesi da dove si verificarono queste emigrazioni furono Italia, Spagna,
Portogallo, Germania, Francia e, in piccola parte, i paesi balcanici.
Sicuramente il fenomeno di migrazione degli italiani fu uno dei più
consistenti. Le condizioni con le quali dovettero confrontarsi i coloni non
furono delle più facili, in alcuni casi si trovarono a lottare contro gli
indigeni per appropriarsi di terre da coltivare.
Non bisogna dimenticare che vi furono anche colonie commerciali.
L’Inghilterra, ad esempio, fece grandi investimenti in Perù, del quale
ebbe un controllo sia economico che finanziario fino alla fine del XIX
secolo. In seguito sopravvennero gli Stati Uniti che presero il controllo
dell’America centrale, del Messico e soprattutto dei Caraibi. Vi fu un
grande investimento da parte della United Fruit Company che introdusse in questi Paesi la coltivazione
delle banane. Non si deve dimenticare che l’America meridionale era stata fino a pochi decenni prima
sotto il dominio spagnolo che l’aveva sfruttata
come riserva di materie prime e ne aveva schiavizzato la popolazione
indigena. Le varie colonizzazioni non ebbero solo effetti positivi anche se è vero
che la colonizzazione fu per lo più di insediamento, ma non mancarono le
grandi società industriali che videro nell’America latina un grande
potenziale economico e fecero grandi investimenti di capitali. Questo portò
ad un ulteriore sviluppo, sia dal punto di vista delle
infrastrutture, sia dal punto di vista sociale, ma creò anche una
situazione di dipendenza nei confronti delle grandi
industrie estere fautrici degli investimenti. A
questa situazione i governi dell’America latina non si ribellarono; non furono presi
provvedimenti per migliorare la condizione presente nelle campagne in cui regnava il latifondismo; non si cercò di seguire la rivoluzione
agricola che stava avvenendo negli altri Paesi.
Nell'America
del nord, popolata da un milione di indigeni, fu perpetuato un genocidio che
si protrarrà fino all'inizio del XX secolo, con interventi militari e con
la distruzione delle risorse vitali per la sopravvivenza delle tribù nomadi,
primo fra tutti lo sterminio dei bisonti. La dottrina
di Monroe, il Manifest Destiny
e il Corollario di Roosvelt
costituiscono la base ideologica dell’imperialismo statunitense. Quello
che originariamente non era che un messaggio presidenziale abbastanza
discreto al Congresso del 2 dicembre 1823, da parte del presidente James
Monroe, si trasforma, a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento, in un
credo nazionale cardine della politica estera degli U.S.A.. Considerando il
momento storico del discorso di Monroe, il divieto di colonizzazione
intimato direttamente all’Europa, specialmente all’Inghilterra e alla
Francia, proibendo a questa potenze, ognuna delle quali molto più forte
degli U.S.A., di stabilire nuove colonie in qualunque punto del continente
americano, va ricollegato alla disgregazione delle colonie spagnole che nei
primi decenni del XIX secolo avevano iniziato a ribellarsi e avevano dichiarato la loro
indipendenza. A differenza, gli U.S.A.
consideravano favorevole l'istituzione di repubbliche con costituzioni modellate sulla loro. L’Europa con gli affari
delle repubbliche del nuovo mondo non aveva niente a che fare. Lo slogan del
"no alla colonizzazione" delle nazioni europee era stato esposto
perché non si spartissero le colonie spagnole sfuggite al controllo della
ex madre patria. Ciò maschera, ma neppure troppo, l’intenzione degli
U.S.A. di voler dominare tutte
le parti del continente non ancora abitate e specialmente di voler prevenire
i rivali nel Nord Ovest del Pacifico. Non è un caso, infatti, che
l’America, sede delle repubbliche del Nuovo Mondo e nemica dichiarata
della Santa Alleanza, che allora dominava nella vecchia Europa, esprima la
sua amicizia al più autocratico dei monarchi del Vecchio Mondo: lo zar di Russia,
che aveva appena
rinunciato a far valere le sue pretese sulle coste del Pacifico al di sopra
del 51° parallelo. Monroe, enunciando la dottrina che da lui prende il nome formula dunque un esplicito manifesto dell’espansionismo
americano che, da un lato esclude le potenze europee, in particolare l’Inghilterra,
dal continente americano, dall’altro delinea le possibilità di un futuro
controllo da parte degli U.S.A. dell’"emisfero occidentale". Tale
dottrina diventerà la bandiera delle interferenze statunitensi negli
autonomi sviluppi del continente latino-americano. Nello stesso periodo,
infatti, i coloni nordamericani sciamano nel territorio messicano del Texas,
ponendo le basi per una realizzazione immediata delle pretese
espansionistiche. Tra il 1836 e il 1837, il governo statunitense appoggia la
guerra insurrezionale che porterà il Texas a dichiararsi repubblica
indipendente. Nel 1845 il Texas accetta la proposta di annessione agli U.S.A..
Il governo messicano, tuttavia, non accetta senza discutere questa soluzione
e ne segue una guerra che dura dal 1846 al 1848 e si conclude in modo
favorevole per gli U.S.A. con la conquista di un immenso territorio
comprendente il Nuovo Messico, la California e lo Utah (pari ad un quinto
della nuova superficie nazionale degli U.S.A.). Nel 1846, frattanto, grazie
ad un accordo con l’Inghilterra, gli U.S.A. acquisiscono il territorio
dell’Oregon. Proprio l’anno prima, a proposito della questione dell’Oregon,
viene coniata l’espressione Manifest
Destiny. La volontà di estendere i benefici del sistema politico basato
sulla libertà e sul consenso costituisce la caratteristica principale di
questa posizione ideologica che fa dell’opera di civilizzazione il
compito principale dell’espansione statunitense e che abbina il concetto
romantico di "destino" con l’individualismo egualitario di una
democrazia aggressiva. Alla metà dell’Ottocento, l’espansionismo
statunitense si rivolge anche in altre direzioni: la Cina, il Giappone (nel
1844 viene stipulato un trattato commerciale cino-americano, nel 1854 il
Giappone viene costretto ad aprire due porti al commercio con gli U.S.A.),
le isole del Pacifico (nel 1872 gli U.S.A. ottengono una base militare nelle
isole Samoa; nel 1886 la cessione della base navale di Pearl Harbour nelle
Hawaii; nel 1892, un colpo di stato, avvenuto sotto la protezione di una
nave da guerra americana, porta alla costituzione nelle Hawaii di un governo
provvisorio che chiede l’annessione agli U.S.A., che però verrà attuata
solo in concomitanza con la fine della Guerra Ispano Americana, dopo la
vittoria contro la Spagna nel 1898). Non va trascurato l’acquisto
dell’Alaska nel 1867. La questione di Cuba scatena la Guerra
Ispano-Americana: nel 1898, dopo alcuni anni di guerriglia e di disordini
interni, la repressione spagnola nella colonia di Cuba si fa più intensa;
gli U.S.A. allora intervengono a favore degli indipendentisti, occupando
l’isola e le Filippine. Cuba rimarrà occupata militarmente fino al 1902.
La vittoria statunitense comporta la cessione agli U.S.A. di Portorico,
della base di Guam e delle Filippine (con un compenso alla Spagna di venti
milioni di dollari per la cessione delle Filippine, dove, però, il
movimento nazionalista indipendentista scatena una guerriglia che durerà
fino al 1902, anno in cui le Filippine verranno riconosciute
"territorio incorporato" e non annesso). A Cuba la penetrazione
degli U.S.A. viene garantita dall’emendamento di Platt, che attribuisce al
governo americano piena libertà di intervento nel caso di disordini
politici: l’isola viene ripetutamente occupata nel 1906, nel 1909, nel
1912 e nel 1917 il governo statunitense autorizza l’utilizzo dei reparti
da sbarco per proteggere gli interessi economici americani nell’isola. Un
altro momento importante dell’imperialismo americano nell’area caraibica
è costituito dal taglio dell’istmo di Panama, reso possibile dalla
secessione della zona di Panama dalla Colombia, promossa dal governo
statunitense nel 1906. Tra il 1901 e il 1906, la dottrina di Monroe si
arricchisce del corollario di Roosevelt. Nel messaggio annuale del 1901
Theodore Roosevelt dichiara: "La dottrina di Monroe dovrebbe essere
l’elemento caratterizzante della politica estera di tutte le nazioni delle
due Americhe, come lo è degli Stati Uniti… Il nostro popolo si propone di
attenersi alla dottrina di Monroe e di insistere su di essa come
sull’unico mezzo sicuro per assicurare la pace nell’emisfero
occidentale. La marina ci offre l’unico mezzo per far sì che la nostra
insistenza sulla dottrina di Monroe non diventi oggetto di derisione per
qualunque nazione che decida di ignorarla." Il tono del messaggio è
audace rispetto alla prudenza e all’ambiguità di quello di Monroe, ma,
del resto, anche gli U.S.A. non sono più gli stessi del 1823. Gli Americani
interpretano il messaggio di uno dei presidenti più amati della loro storia
come una definizione del concetto di pax
americana. Nel 1906, sempre il Presidente Roosevelt dichiara che gli
U.S.A. possono esercitare un "potere di polizia internazionale"
nel caso di disordini nell’America Latina. Si attuano così gli interventi
a Santo Domingo (1905), a Cuba (1906), nel Nicaragua (1909 e 1912), ad Haiti
(1915). In estremo oriente la politica americana si ispira alla dottrina
della "porta aperta", enunciata nel 1899 dal Segretario di Stato
Hay, in cui si chiede, insieme al riconoscimento delle sfere di influenza
americana in Cina, che ogni potenza mantenga un’equa libertà di accesso
commerciale alla propria zona. Negli anni immediatamente precedenti
all’intervento nella prima Guerra Mondiale, tra il 1914 e il 1916, gli
U.S.A. continuano con le ingerenze nelle travagliate vicende dellla
situazione messicana, contro le forze di Pancho Villa.
In Africa
si ebbero conseguenze terribili dall'incontro con gli europei perché la
risorsa esportata fu quella "umana": gli europei erano presenti in
Africa già prima del XIX secolo con dei "porti - mercati" situati sulle
coste che servivano per la "tratta degli schiavi" e per agevolare i viaggi
verso l’India, ma le prime esplorazioni dell’interno del continente
avvennero solo dopo il 1815. Queste prime esplorazioni erano compiute
soprattutto da dei missionari delle varie chiese che avevano l’intento di
civilizzare le popolazioni "barbare" dell’Africa.
Avvenuta l’esplorazione dell’Africa a sancire un primo mutamento dei
rapporti tra Europa ed Africa fu la conferenza geografica di Bruxelles, che
si tenne tra il 12 e il 19 settembre 1876, dove il re del Belgio Leopoldo II
lanciò il pretesto utilizzato poi da tutte le potenze europee per
giustificare le imprese "imperialiste" in Africa. Leopoldo II
disse che la conquista dell’Africa doveva essere vista come una crociata
contro le barbarie: "L’argomento
–affermò il re del Belgio- è uno di quelli che più meritano di attirare
l’attenzione degli amici dell’umanità. Aprire alla civiltà l’unica
parte del globo in cui essa non è ancora entrata, squarciare le tenebre che
coinvolgono intere popolazioni, è questa, credo di poter affermare, una
crociata degna di questo secolo di progresso, adesso si tratta di stabilire
assieme quali sono le vie da seguire e i mezzi da utilizzare per inalberare
definitivamente il vessillo della civiltà".
Le antiche civiltà evolutesi senza molti contatti con l'esterno (regni di
Yoruba, del Benin, del Congo, Luba e Matabele) furono impreparate ad
affrontare l'impatto con gli europei, altre intrattenevano rapporti
commerciali con la cultura arabo-islamica, ne subivano l'influenza e già
conoscevano il commercio di schiavi che aveva portato alla rovina le civiltà
di Axun e del Ghana. Gli europei, che per quasi quattro secoli hanno rapito
o barattato con mercanzia di infimo valore i giovani africani, speranza e
futuro delle loro comunità, erano forse i più significativi interpreti
dello schiavismo e della tratta degli schiavi. All’inizio del XIX secolo
l’Africa si presentava nettamente divisa fra la parte settentrionale araba
e islamica, e l’Africa subsahariana o nera. La prima era ormai in piena
decadenza; la seconda, scarsissimamente popolata (tutta l’Africa aveva
circa 100 milioni di abitanti), era stata terra di saccheggio umano da parte
dei trafficanti di schiavi.
Molti fattori contribuirono all’esplosione imperialistica in Africa. Il
progresso dell’industrializzazione in Europa creava l’esigenza di nuovi
mercati e suscitava nuove tensioni sociali per le quali alcuni uomini
politici, come Joseph Chamberlain, vedevano una valvola di sfogo appunto
nella colonizzazione. Le rivalità tra gli stati europei si trasferirono al
mondo extraeuropeo e in particolare all’Africa. Così, spesso un banale
incidente fra mercanti europei in concorrenza in Africa poteva tramutarsi in
una crisi internazionale, e d’altronde furono talune iniziative intraprese
localmente da agenti europei a dare il via alla corsa per il possesso del
continente. La spartizione dell’Africa fu determinata in gran parte
dall’appoggio che i singoli governi europei diedero alle attività dei
loro cittadini operanti in Africa.
In Africa settentrionale, dal 1882, la Gran Bretagna aveva il controllo
dell’Egitto e, in parte, del Sudan.
Nell’Africa Occidentale gli Inglesi possedevano delle piccole colonie -
Gambia (1888), Sierra Leone (1807), Costa D’Oro (1874). In seguito la Gran
Bretagna, spinta dalle attività francesi e tedesche, si assicurò il
controllo di quei territori che poi divennero la Nigeria (1807-1914).
In Africa Orientale il premier Lord Salisbury rivendicò la regione dei
grandi laghi (Uganda, 1894) e il territorio contiguo fino alla costa,
l’odierno Kenya (1920).
Nell’Africa Meridionale e Centrale la Gran Bretagna, dopo il 1870, penetrò
negli odierni Zimbabwe, Zambia, Malawi, Botswana, Swaziland e Lesotho. Nel
1890 instaurò il protettorato su Zanzibar e nel 1920 ottenne il mandato del
Tanganica. L’azione di invasione fu stimolata potentemente dalle scoperte
di ricchissimi filoni d’oro e di diamanti. L’iniziativa di questa
penetrazione fu in gran parte di Cecil Rhodes, industriale e uomo politico
della Colonia del Capo.
Quella dell’Africa fu una spartizione cruenta che provocò decine di
migliaia di vittime. L’apice si raggiunse con la guerra anglo-boera
(1899-1902), in seguito alla quale gli Inglesi riuscirono, non senza fatica,
ad assicurarsi le miniere d’oro del Transvaal e ad assorbire le
repubbliche boere. Le ostilità si aprirono nel 1896 con la fallita
incursione di Jameson contro i Boeri che minò la reputazione politica del
suo amico Rodhes; ma Chamberlain e Milner, alto commissario a Città del
Capo, continuarono la politica di Rodhes fino ad arrivare alla guerra. Le
ostilità si conclusero il 31 maggio 1902 quando venne firmata la pace di
Pretoria. Gli inglesi si astennero abilmente da una politica di
rappresaglie; e anzi puntarono sulla riconciliazione e sulla compenetrazione
del potere fra inglesi e boeri ai danni della maggioranza non bianca. Nel
1910 nacque l’Unione Sudafricana, travagliata dai pessimi rapporti fra la
minoranza bianca e la maggioranza nera, privata di tutti i diritti e ridotta
a uno sfruttamento inumano in condizione di virtuale schiavitù.
L'Asia
ha visto il nascere di importantissime civiltà, da sempre ben inserite nei
commerci mondiali; anche a causa degli enormi territori e della numerosa
popolazione, non fu travolta come altre realtà, anzi inizialmente consentì
l'insediamento solo di piccole basi commerciali sotto la bandiera di un
qualche stato europeo. Fino al XVIII secolo i suoi prodotti (tessuti in seta
e cotone, spezie, tè) erano acquistati barattandoli con oro e argento; con
l'avvento della rivoluzione
industriale, ad esempio, le fabbriche inglesi
produssero tessuti a basso costo mettendo in crisi l'industria tessile
indiana e riducendo la colonia, fino ad allora benestante, a semplice
fornitrice di materia prima. Parecchi paesi del
terzo mondo, soprattutto asiatici, non erano affatto felici di offrire alle
grandi potenze occidentali né i loro mercati, né la loro manodopera a
basso costo, né le loro tanto desiderate materie prime. In nessun modo
volevano permettere che delle industrie straniere operassero sul loro
territorio e aprissero grandi cantieri di "sviluppo" della rete
stradale o delle miniere.
L’espansionismo coloniale europeo si imbatté
in imperi di antichissime civiltà come quella cinese e giapponese, che si
erano rigidamente chiuse nel loro isolamento, rispetto all’Occidente
europeo.
L’Inghilterra fu la prima a forzare il blocco dei porti cinesi. In seguito
anche Russia, U.S.A. e Germania cominciarono a conquistare territori e
mercati orientali.
Lo sviluppo industriale ed economico, le migliori comunicazioni, le nuove
forme di organizzazioni commerciali dei paesi colonizzatori avevano portato
allo sfruttamento delle risorse delle colonie.
Le nazioni europee trassero così enormi vantaggi da questa politica di
sfruttamento diffondendo inoltre la loro civiltà, la loro cultura, i loro
sistemi di governo, la religione e la lingua.
Questo fatto a volte suscitò vari conflitti tra la mentalità e la cultura
occidentale e quelle delle popolazioni locali. Ciò avvenne soprattutto in
Africa dove le tradizioni tribali erano più forti e radicate e dove la
cultura individualistica europea provocava maggiori e più acute fratture.
L’espansionismo coloniale ebbe notevoli ripercussioni anche sul sistema
politico europeo poiché il rapporto di forze fra le varie nazioni venne
lacerato completamente.
Ciò contribuì a far scoppiare contrasti e dissidi tra le potenze europee
che portarono nel 1914 al primo grande conflitto mondiale.