Negli
ultimi decenni dell’Ottocento sorse la tendenza alla concentrazione
dell’attività produttiva, alle coalizioni e fusioni tra diverse società o
fabbriche (trusts) o agli accordi di mercato tra autonome imprese dello stesso
ramo (cartelli). Il capitalismo entrò allora in una nuova fase: mentre in tutto
il periodo precedente la sua espansione si era basata sulla libera concorrenza,
le maggiori industrie e le banche più potenti cominciarono ad acquistare un
carattere monopolistico. Negli Stati Uniti il settore petrolifero e quello
siderurgico furono i primi ad essere dominati da grandi complessi produttivi
(Standard Oil e U.S. Steel), mentre in Germania lo stesso fenomeno avvenne
nell’industria chimica (con le imprese Hoechst, BASF e Bayer) e
nell’elettromeccanica (Siemens e AEG).
Una delle conseguenze della concentrazione industriale
e bancaria di trusts e cartelli fu l’eliminazione o la riduzione della
concorrenza, alla quale la scienza economica aveva sempre attribuito una
decisiva funzione di stimolo e di progresso e che la concreta espressione della
libertà economica rivendicata dalla borghesia rivoluzionaria contro il
protezionismo semifeudale e assolutistico. Il nuovo sistema del capitalismo
monopolistico, che cominciò a sorgere dopo il 1870, si affermò pienamente e
divenne dominante nei primissimi anni del Novecento.
All’interno delle grandi fabbriche, le cui dimensione erano destinate a
crescere nelle condizioni create dal capitalismo monopolistico, furono allora
realizzate le tecniche di organizzazione e di sfruttamento del lavoro, mediante
la regolamentazione del ritmo produttivo e la rigorosa ripartizione di una serie
di compiti operativi. Il sistema che fu messo a punto nel 1893 dall’americano
Frederik W. Taylor (da cui prese il nome di “Taylorismo”) diede il primo
avvio al tipo di produzione “a catena”, che si è poi generalizzato nella
fabbrica moderna. La razionalizzazione organizzativa del lavoro, basata sulla
rigida divisione e sulla concatenazione delle mansioni degli operai, aveva
l’obiettivo di accelerare il ritmo della produzione e di rafforzare il
controllo della direzione aziendale sull’attività lavorativa. Sulla base di
queste premesse si giunse, con la catena di montaggio, a regolare sulla base
della velocità di un complesso di macchine coordinate tutto l’insieme
dell’attività lavorativa della fabbrica: il sistema fu attuato inizialmente,
in questa forma, nell’industria automobilistica, per iniziativa
dell’americano Henry Ford. L’altro fattore di trasformazione della fabbrica
fu l’intensificazione dello sviluppo tecnologico, che aumentò grandemente la
presenza e la funzione dei tecnici.
I grandi complessi bancari non si limitarono, in questa fase, a convogliare
verso l’industria le risorse finanziarie, ma giunsero – attraverso il
controllo del credito, il possesso di azioni e l’impiego di capitali – a
conquistare una parte a volte preponderante nella direzione delle imprese
industriali, dando un potente stimolo alla concentrazione e alla nascita di
trusts e cartelli. Il nuovo tipo di capitale basato sulla compenetrazione tra
banche e industrie (che è stato definito capitale finanziario) non si limitò
agli investimenti nell’ambito nazionale. Con la sua capacità di realizzare
grandi profitti e la sua larga disponibilità di risorse finanziarie, il sistema
industriale-bancario produsse un’eccedenza di capitali e quindi una ricerca di
possibilità di investimenti e di profitti non più in patria ma all’estero.
L’esportazione di capitali divenne tra il 1870 e il 1914 uno degli aspetti più
importanti dell’espansione dell’influenza capitalistica su scala mondiale e
si intrecciò con la ricerca di mercati e di materie prime nel quadro della
lotta economica tra le nazioni. Una parte rilevante dei profitti della Gran
Bretagna, della Francia, della Germania, degli Stati Uniti, provenne da
investimenti all’estero: fra il 1880 e il 1913 la Gran Bretagna vi impiegò
quasi un quarto della ricchezza prodotta.
Il capitale finanziario seguì, nell’esportazione, una via opposta a quella
delle correnti migratorie umane. Dai grandi centri industriali esso si indirizzò
infatti verso i paesi economicamente arretrati, dove mancavano capitali, i
salari erano bassi, vi era disponibilità di materie prime e vi erano in genere
condizioni favorevoli alla realizzazione di alti profitti. La protezione
politica e militare degli stati di origine fu spesso la garanzia principale
contro i rischi di una simile attività. In questo modo la spinta
espansionistica del capitale finanziario (cioè del capitalismo giunto ad una
particolare fase della sua evoluzione) diede l’avvio al moderno imperialismo
ed alla subordinazione economica e politica dei paesi deboli e sottosviluppati.
(Villari)
Col giungere a maturità del sistema capitalistico anche il movimento socialista
entrò in una fase nuova. Negli anni tra il 1870 ed il 1890, si formarono
infatti i moderni partiti socialisti e si precisarono le teorie politiche ed
economiche che ne ispirarono i programmi e l’azione. In particolare, raggiunse
allora la sua compiutezza il pensiero marxista, di cui una prima e importante
anticipazione si era avuta alla vigilia della rivoluzione del 1848 con la
pubblicazione del Manifesto, scritto da Marx e da Engels per incarico per la
Lega dei comunisti. Allora si era formato il primo nucleo di una organizzazione
operaia internazionale, la cui attività si concluse con la scoperta della lega
segreta a Colonia e le condanne che ne seguirono (1852). Le fila
dell’organizzazione furono riannodate nel 1864, quando fu fondata la prima
Associazione internazionale degli operai. La vita della nuova organizzazione
(1864-1876) coincise appunto con la più matura elaborazione del pensiero
marxista e con la diffusione della sua influenza nel movimento
operaio. (Villari)