La fede come paradosso in Kiekegaard e la sua critica al cristianesimo positivo

 

Kierkegaard.JPG (19539 byte)La problematicità del cristianesimo in Kierkegaard giunge ad un esito opposto rispetto a Feuerbach e Marx, ma la fede cui approda il filosofo è il risultato di una critica al cristianesimo positivo e alla sua stessa essenza, e assume peculiari connotati.

In antitesi con il pensiero di Hegel che risolve il singolo nella totalità Kierkegaard riafferma l’individualità, e parte al contrario dalla riflessione sulla profonda interiorità dell’individuo. La categoria del singolo diviene non la necessità razionale che Hegel applica alla totalità processuale infinità della storia, ma la possibilità. La possibilità di dover scegliere di fronte alle molteplici alternative poste dall’esistenza. La fede costituisce l’unico modo di superare la crisi dell’individuo di fronte alle possibilità riferite alla sua interiorità ( la disperazione ). Essa infatti fa si che l’uomo resti sé stesso, ciò gli è infatti costitutivo, ma contemporaneamente superi la sua finitezza e riconosca la sua dipendenza da Dio.

Si è visto quindi come la fede costituisca lo sbocco di una crisi esistenziale, ma essa innanzitutto è tale in virtù del suo carattere irrazionale e individuale.

Il filosofo critica l’essenza stessa del cristianesimo positivo, il rapporto con la filosofia, e di conseguenza la sua mediabiltà con l’uomo e la storia. Nella Postilla conclusiva non scientifica egli si pone la questione di che cosa sia il cristianesimo prescindendo dal fatto che esso abbia o meno ragione. << La questione non è se il cristianesimo abbia o meno ragione, ma cosa esso sia. La speculazione trascura questa chiarificazione preliminare ed è per questo che le riesce il gioco della mediazione. Prima ch’essa si metta a fare la mediazione essa l’ha già fatta, in quanto ha già trasformato il cristianesimo in una dottrina filosofica. >>. Egli non considera quindi il cristianesimo come una dottrina positiva o una filosofia, cos’è dunque ? Esso è proprio l’antitesi di ogni speculazione e come tale si presenta come non mediabile.

Contro la mediazione il filosofo si esprime con particolare riferimento alla filosofia hegeliana che opera sistematicamente conciliando tesi ed antitesi nella sintesi. L’esperienza religiosa costituisce invece l’esempio più evidente di una dialettica che non vuole scorgere i nessi logici fra i diversi momenti di un processo, bensì deve prendere atto del distacco fra un momento e l’altro ( si parla di dialettica << qualitativa >>). Ragionando in questi termini Kierkegaard vede l’uomo che in un primo momento, Adamo in paradiso, è vissuto nella completa incoscienza, ignorando se stesso. Egli è potuto passare alla coscienza di sé attraverso una netta rottura, un salto rappresentato dall’atto di ribellione del peccato. L’angoscia del peccato ha fatto scoprire ad Adamo la sua coscienza individuale di fronte a Dio, nel quale il singolo coglie la sua finitezza.

La profonda tragicità di questa situazione non è comprensibile razionalmente ma necessita della fede come salto, non senza rischio, che si dirige nella più profonda interiorità e si abbandona alla grazia divina la quale libera l’uomo dall’angoscia della propria finitudine.

Kierkegaard ha criticato la verità positiva del cristianesimo che è posta nella storia attraverso la progressiva mondanizzazione della chiesa attraverso la teologia e la filosofia. La verità, sostiene, è tale solo in quanto soggettiva, deve escludere ogni oggettivazione storica. La sua riflessione, a ben notare, è al limite con la conclusione di Feuerbach che ha fissato nel sentimento dell’uomo l’origine del rapporto uomo – Dio; per esprimere tale concetto lo propongo con le stesse parole del Lowith: << Considerata storicamente, la riduzione di Feuerbach della religione cristiana al "sentimento" dell’uomo sensibile non è quindi altro che il preludio sensibile dell’esperimento esistenzialista di Kierkegaard, con cui questi vuole cancellare il distacco storico della "contemporaneità" interiore, e vuole riconquistare con l’esistenza particolarissima il cristianesimo primitivo, che è ormai giunto alla fine della sua decadenza. >>.

Il rapporto fra storia e cristianesimo diviene un altro punto fondamentale del distacco di Kierkegaard da Hegel. Quest’ultimo risolveva la verità della religione assoluta nella storia universale dello spirito in modo che i due termini fossero conciliati. Kierkegaard coglie la contraddizione di voler affermare una verità eterna attraverso un sapere storico, perciò l’appropriazione individuale del cristianesimo deve essere in antitesi con la sua diffusione storica. L’uomo dovrebbe appropiarsi del cristianesimo primitivo come se nel frattempo <<nulla fosse avvenuto>>. Tutto ciò è possibile se da verità generale e storica esso diviene possibilità individuale, assomigliando in definitiva ad un postulato, postulato che si rende necessario data la contraddizione dialettica che porta alla disperazione della condizione umana, nei confronti della quale la fede diviene << legittima difesa >>; << Dio anzi non è neppure un postulato: il fatto che l’individuo esistente postuli Dio è piuttosto una necessità.>>.

Se non è possibile una verità assoluta oggettiva, cioè staccata, del cristianesimo, la sua assolutezza risiede proprio nell’appropriazione individuale che se ne fa, nel comportamento di fronte ad esso. Il paradosso, che nasce dalla non mediabiltà razionale, diviene la sua essenza e la garanzia della sua verità. La stessa esistenza di Dio è indifferente per il fatto che l’individuo si rapporti in maniera assoluta nei confronti di qualcosa. L’uomo infatti non è in grado di accertare oggettivamente, cioè da fuori, il proprio rapporto con Dio, e l’atto di fede in quanto accettazione dell’incertezza oggettiva della verità è esso stesso verità. La verità non è quindi il che esteriore, bensì il come esteriore.

<< Se la soggettività dell’interiorità è la verità, questa per contro, oggettivamente determinata, è il paradosso; e il fatto che la verità sia oggettivamente il paradosso mostra appunto che la soggettività è la verità, dal momento che l’oggettività respinge da sé, e che questo suo atto di respingere, o l’espressione di tale atto, costituisce il misuratore e la tensione dell’interiorità. >>.

Se la verità è interiore e raggiungibile tramite la soggettività si pone il problema della comunicabilità da uomo ad uomo del cristianesimo. In conformità alla sua stessa natura paradossale, la verità del cristianesimo andrà comunicata paradossalmente e non attraverso un discorso razionale – speculativo. In questo modo è utile all’appropriazione del singolo il paradosso che deve << richiamare all’attenzione >>. E’ significativo l’esempio di Abramo che nell’accettare il sacrificio del proprio figlio a Dio va contro ogni morale e logica razionale. E’ altresì paradosso la figura di Gesù Cristo, uomo e Dio allo stesso tempo.

Il cristianesimo non si presenta come una dottrina che vuole essere compresa, ma come una comunicazione di esistenza che come tale non può prescindere dal desiderio di essere realizzata come imitazione di Cristo. Kierkegaard polemizza vivamente contro coloro i quali predicano alla domenica e nei restanti giorni si accontentano della pace interiore data dall’attenersi solo a precetti convenzionali.

Un’altra questione che si pone è il rapporto del vero cristiano, forte del raggiungimento della verità interiore, con gli altri uomini. Il primo Kierkegaard insiste sul rapporto strettamente interiore e individuale dell’uomo con Dio, che il singolo vive drammaticamente chiuso su se stesso. La fede è una conquista dell’individuo che non si preoccupa di essere maestro e di << rivendere a buon mercato >> la sua verità, se mai è testimone di essa. Il cristianesimo non è il regno di questo mondo e il fedele è estraneo alle vicende mondane. In un secondo momento il filosofo tende invece a presentare come dovere del vero cristiano quello di non rinchiudersi in se stesso, ma di lottare con la realtà degli altri uomini che sono paghi di vivere nell’infinitezzadi questo mondo. Gli uomini comuni sono tutti coloro i quali accettano passivamente la morale vigente e non si fanno mai responsabili con opinioni proprie di fronte ad essa. Il riuscire a rendere gli uomini comuni attenti a Dio è la manifestazione dell’amore verso il prossimo, che solo però può derivare da quello di Dio. Questo atteggiamento di Kierkegaard si confonde molto spesso in disprezzo e distacco nei confronti della folla, e in ultima analisi testimonia la conciliazione, solo apparente, fra il prossimo e la singolarità. Tale conciliazione prende avvio non tanto dal reale amore per il prossimo, ma dall’affermazione di qualcosa che si attua nel profondo dell’animo.

E’ evidente in questo senso la forte ispirazione mistico–irrazionale del pensiero Kierkaardiano. Lo stato di grazia del mistico è poco condivisibile e apprezzabile dagli altri uomini, così come è negata la ragione con la quale gli uomini potrebbero giungere ad un intesa.