Trasformazioni sociali seguite alle Rivoluzioni Industriali

Il principale risvolto sociale seguito ad un cambiamento economico così radicale è rappresentato dal processo di rivoluzione demografica.
Il saggio di sviluppo della popolazione dipende dal saggio di incremento naturale, cioè tra la differenza del tasso di natalità e di mortalità. Sappiamo con sicurezza che, dopo centinaia di anni di relativa stabilità, con una popolazione, in Inghilterra, ancora nel 1750, fissa tra i 5.8 e i 6 milioni, l’incremento demografico ha un’impennata, inizia a salire e non si arresta più. Nel 1840 la popolazione inglese è di circa 16 milioni. In quegli stessi decenni, anche la produzione cresce fortemente, così da sostenere quell’incremento nel numero delle persone, senza fenomeni di scarsità nell’alimentazione e nei beni di consumo. Le ragioni probabili dell’incremento demografico sono le migliori condizioni igieniche, i progressi della medicina, una migliore alimentazione e la fine delle epidemie.
Lo stesso sviluppo dell’industria portò notevoli cambiamenti non solo nel mondo del lavoro, ma anche nella stessa vita quotidiana: le città cambiarono
volto per accogliere i nuovi impianti industriali e, soprattutto, per ospitare, per lo più in condizioni estremamente precarie, i nuovi abitanti che vi si trasferivano; le campagne si spopolarono e lo stesso paesaggio mutò volto, per effetto della nuova configurazione urbanistica, degli insediamenti industriali e dell’inevitabile inquinamento da essi prodotto.
Queste importanti e decisive trasformazioni determinarono, inevitabilmente, una nuova configurazione nei rapporti tra le classi. La sempre maggior diffusione dell’industria comportò difatti, l’affermazione economica della borghesia
imprenditoriale, cioè della classe proprietaria dei mezzi di produzione e, di fronte ad essa, in posizione antagonistica, fece la sua apparizione la figura del proletariato industriale.
Con l’industria e con la nuova figura storica dell’operaio, in genere un ex - contadino sradicato dalle campagne e immesso in una realtà urbana alienante, nacque anche la necessità di trovare normative adeguate ai tempi e ai nuovi rapporti di lavoro.
Nello specifico, le condizioni degli operai si presentavano drammatiche per diverse ragioni. Innanzi tutto l’orario di lavoro poteva prolungarsi per 16/18 ore sottoponendo il lavoratore a rigidi regolamenti che rendevano la vita di fabbrica simile a quella del carcere. Il lavoro degli operai era reso ancora più difficile dalle condizioni in cui si svolgeva. Capannoni dai soffitti bassi, dalle finestre strette e quasi sempre chiuse. Nelle filande di cotone la “borra” aleggiava come una nube e penetrava nei polmoni causando col tempo gravi scompensi. Nelle filande di lino, dove si praticava la filatura ad umido, il vapore acqueo saturava l’atmosfera e inzuppava gli abiti. L’ammassarsi di numerose persone in ambienti chiusi provocava una febbre contagiosa.
Frequenti erano anche gli infortuni come  l’amputazione, di arti o parti di essi stritolati dagli ingranaggi delle macchine.
Nelle fabbriche inglesi erano assunti di preferenza donne e bambini che potevano essere pagati con salari inferiori rispetto a quelli degli uomini e che possedevano quella manualità necessaria al lavorio nei telai meccanici.
Entravano nei cancelli delle filande alle cinque del mattino e ne uscivano alle otto di sera, compreso il sabato. Per tutto il tempo restavano chiusi con una temperatura variante tra i 26 e i 30 gradi. I pasti venivano consumati nell’unica sosta di mezz’ora per la prima colazione e di un’ora per il pranzo.
Il successo della meccanizzazione in campo tessile indusse altre industrie ad adottare nuove macchine e a cercare di applicare ad esse il motore a vapore. Con la rapida diffusone della nuova macchina, che necessitava di ferro per la costruzione e di carbone per l’alimentazione, si determinò un crescente sviluppo delle miniere di carbone e ferro  nelle cui gallerie si formavano spesso delle miscele di gas asfissiante (come il Grisù, formata da metano e aria) che esplodendo provocavano decine o anche centinaia di morti.
In pratica la vita dell’operaio veniva assorbita dalla fabbrica ed egli finiva col diventare uno strumento di produzione asservito ad un meccanismo produttivo sul quale non poteva esercitare alcun controllo. Lo stato contribuì a rendere più agevole lo sfruttamento dei salariati vietando nel 1799/1800 con i Combination Acts l’associazione fra gli operai; il divieto non impedì però che le associazioni di mestiere (trade unions) si sviluppassero clandestinamente, fino a quando la protesta operaia assunse nel 1811 forme violente con lo sviluppo del luddismo. La manifestazione più importante e vistosa del movimento fu la distruzione delle nuove macchine nelle quali gli operai vedevano la causa più diretta delle loro sofferenze.
Se la prima fase della rivoluzione industriale aveva riguardato essenzialmente l’industria tessile, ma già intorno al 1830 essa investì,  in seguito alle recenti innovazioni tecnologiche, anche la siderurgia e “l’industria pesante” in genere.
Le disumane condizioni di vita dei lavoratori rafforzarono la solidarietà tra gli operai e sollecitarono la richiesta di una nuova legislazione sociale che riscattasse il proletariato industriale dalla sua posizione di sfruttamento e di emarginazione, mediasse e componesse le vertenze tra capitale e lavoro.
Progressivamente, sotto la spinta delle rivendicazioni operaie e di un’opinione pubblica più illuminata, le società industriali hanno cercato di equilibrare meglio i rispettivi ruoli di tutti i collaboratori dell’attività economica. Nelle popolazioni si è venuta creando, a poco a poco, una coscienza sociale che non tollera più gli abusi dell’inizio. Si sono costituite    associazioni ideologiche che hanno proposto l’ideale della “democrazia industriale” e il conseguimento di un nuovo “contratto sociale”. Questi obiettivi, malgrado l’imprecisa terminologia che li descrive, rivelano  la necessità di maggiore  solidarietà  all’interno della società industriale.
I primi risultati di qualche rilievo (che dimostrano però i limiti molto stretti entro i quali si muovevano i tentativi di legislazione sociale) vennero ottenuti nel 1831 in Inghilterra con una legge che vietava il lavoro notturno nell’industria tessile agli operai di età inferiore ai 18 anni e che proibiva di assumere nelle fabbriche tessili, ad eccezione dei setifici, bambini al di sotto dei 9 anni.
Una nuova legge del 1844 ridusse a sei ore e mezza giornaliere il lavoro dei fanciulli e fissò a non più di 12 ore la giornata lavorativa per le donne e i giovani. Questo limite fu poi abbassato a 10 ore nel 1847. L’applicazione di queste leggi però fu fortemente ostacolata dall’inadeguatezza dei controlli e dalla resistenza degli industriali: la loro effettiva efficacia dipendeva in realtà dal grado di sviluppo del movimento operaio e dalla sua capacità di autodifesa.